recensione diMauro Giori
Playcolt
Con Playcolt Renzo Barbieri, il fondatore e principale ispiratore dei fumetti “per adulti”, tenta di replicare il successo della sua prima creatura, Goldrake, riciclandone nella sostanza la formula: anche Playcolt è un tombeur de femmes (come si conviene a tutti gli emuli di James Bond, nonché a tutti gli eroi del porno) e ha il volto di un divo francese (non più Belmondo bensì Alain Delon, senza contare che al mondo civile il protagonista è noto come Alain Velon). E se il titolo Goldrake era talora completato da Playboy, quello di Playcolt plagia senza timori il lettering della celebre rivista di conigliette, che aveva appena avviato la sua edizione italiana.
Velon/Playcolt è un giustiziere privato dai modi spicci, più elegante di Goldrake ma non certo più fine nell’eloquio, possiede una montagna di soldi, un’isola a forma di squalo (che è il logo dell’editore) e un grattacielo a New York, in cima al quale tiene la sede della sua casa editrice, mentre nei sotterranei nasconde tutto ciò di cui Bond poteva disporre presso i servizi segreti di Londra: tirassegno, laboratori, auto e moto in quantità.
Playcolt ha fortuna e continua per sette anni e 128 numeri, nonostante la qualità alterna dei disegni. La formula bondiana ripaga e permette con facilità di confezionare storie di qualche avventurosa suggestione, ma dal punto di vista della rappresentazione dell’omosessualità non si fanno certo passi avanti rispetto a Goldrake.
Data la presenza costante e persino ossessiva di scene lesbiche nel porno eterosessuale, che Playcolt abbia talvolta a che fare con donne che amano donne (in senso puramente fisico) non fa notizia. Occasionalmente capita però che la componente lesbica si faccia particolarmente consistente, come già nel terzo episodio (Buon Natale Za la Morta), nel quale l’antagonista è a capo di un’intera banda di sadiche donne omosessuali che, rapita la fidanzata di Playcolt, attirano l’eroe nel loro quartier generale e lo sottopongono a ogni genere di tortura. Ovviamente non solo Playcolt riesce ad avere la meglio, ma riconverte anche la lesbica più recalcitrante per mezzo dei suoi irresistibili feromoni, perfettamente funzionanti nonostante la temperatura glaciale. Tutte le altre vengono semplicemente uccise, con trascurabili sensi di colpa. Si salva solo Za la Morta, che tornerà in ulteriori avventure e il cui nome è ispirato a quello del più celebre eroe nero del cinema italiano seriale muto, il Za la Mort di Emilio Ghione (ma mi chiedo quanti dei giovani lettori del 1972 di Ghione potevano avere memoria).
Gli omosessuali maschi, invece, rimandano generalmente a due stereotipi: il travestito che batte e l’effeminato languido.
Il primo esemplare compare già nell’episodio successivo (La banana meccanica), ispirato al film di Kubrick che era appena arrivato nelle sale. Vi si raccontano le imprese di un gruppo di emuli dei drughi con variazioni non prive di interesse anche nelle loro deformazioni provinciali, a cominciare dal linguaggio che imita malamente quello inventato da Burgess ricorrendo soprattutto a termini del gergo giovanile dell’epoca (o di quello che gli autori ritenevano essere il gergo giovanile). Dopo lo stupro esemplato su quello che apre Arancia meccanica, anziché assalire un clochard come nel film i drughi nostrani tirano una moneta per scegliere se andare a perseguitare «puttane o froci», e vincono i secondi. In realtà nell’immaginario degli autori le due cose coincidono, perché a fare le spese di questi nullafacenti è un prostituto travestito da donna. Se non altro i suoi colleghi fanno gruppo e lo aiutano affrontando i criminali con urla invero assai poco minacciose («A borsettate!», «Gli rompo i tacchi in testa, io!», «Fuori, fuori tutte!»). Ma quando arrivano in soccorso i relativi papponi, che sono veri uomini, la situazione cambia. Siccome però uno dei criminali è un figlio di papà, la polizia sopraggiunta li difende e li riaccompagna a casa. Solo Playcolt potrà dunque farsi vero e definitivo raddrizzatore dei torti subiti dalle vittime di questi teppistelli e garantire una superiore giustizia che la polizia corrotta non può dispensare. E la sua è una giustizia spicciola: come le seguaci di Za la Morta, tutti i delinquenti finiranno uccisi senza pietà. Beninteso, lo scopo principale di Playcolt non è quello di vendicare il travestito, del quale non potrebbe importargli di meno, bensì la donna stuprata all’inizio, perché era una sua «ex fiamma»: addirittura, l’“eroe” precisa che nemmeno il di lei marito, pur famoso, sarebbe bastato a smuoverlo dal suo comodo ufficio: «Naturalmente mi dispiace anche per il maestro… ma spazzolarmi così la Tina è stato un atto veramente deprecabile… sì, deprecabile…». Il ruolo di vittima rimane comunque l’unico a consentire all’omosessualità un minimo riscatto.
Del secondo tipo di omosessuale è invece tipico rappresentante il professor De Calbolis, che compare nel sedicesimo episodio intitolato Le legioni di Saffo e pubblicato nel settembre 1973. Playcolt deve vedersela questa volta con l’ennesimo complotto omosessuale, come già era accaduto prima per Goldrake e persino per la rinascimentale Isabella. Ma questa volta la cospirazione è di matrice lesbica ed è ordita dalla perfida signorina Lekken, giornalista, femminista radicale, androfoba impenitente (definisce Velon un «inutile ammasso di testicoli»). Capello corto, ciglia lunghe un metro, lineamenti delicati e seno prosperoso, la Lekken è la lesbica come possono sognarla gli eterosessuali, ed è ovviamente infinitamente più mascolina di De Calbolis, disegnato al solito con erre moscia e tratti effeminati. La diabolica associazione della Lekken si nasconde dietro un salone di bellezza nel quale vengono reclutate belle donne perché somministrino ai loro mariti il siero creato da De Calbolis (quelle che non collaborano vengono gentilmente liquidate, alla lettera: finiscono sciolte nell’acido). L’effetto del siero per la verità non è molto chiaro (non diversamente da quanto accadeva con l’intruglio d’erbe in Isabella): parrebbe rendere gli uomini indifferenti al sesso femminile, ma a un certo punto si parla anche di conversioni pederastiche. Di fronte alla versione finale della magica pozione, la Lekken esclama entusiasta: «Renderemo gli uomini mansueti e docili come agnellini!», ma De Calbolis già sogna: «Potvò aveve mille amanti… sceglievò i maschiacci più belli…». Da un lato parrebbe semplice confusione derivante da abuso di stereotipi, ma dall’altra è un’ambivalenza inconsistente nel contesto di un prodotto dal retroterra fascistoide, dove a contare è l’esaltazione di una virilità tradizionale, singola e superomistica, violenta e rapace, ma soprattutto falloide. Di conseguenza, essere indifferenti alle lusinghe femminili o provare interesse per gli uomini sono minacce sostanzialmente coincidenti per il maschio eroe, predatore eterosessuale, così come per il lettore che vive nella sua ombra. Al limite rappresentano gradi diversi di gravità dello stesso problema, ma offrono uguali occasioni di rivalsa e di riaffermazione del potere imperituro del fallo. E infatti anche in questo caso è Playcolt a sventare il complotto, dando il “meglio” di sé: a una lesbica stacca la testa con un calcio, ne sfigura un’altra con una gomitata e lascia che dei leoni sbranino le rimanenti. Ma non la Lekken, cui spetta il consueto contrappasso delle lesbiche cattive: essere riconvertita punitivamente all’eterosessualità, in questo caso tramite somministrazione di un siero che rende ninfomani, sicché l’ultima vignetta la ritrae nel mezzo di un’orgia circondata da stalloni. Quanto a De Calbolis, non occorre che Playcolt faccia nulla: essendo istericamente impressionabile, come si conviene a un uomo solo apparentemente tale, quando l’eroe attacca la sede del complotto cade stroncato da subitaneo infarto.