recensione diMauro Fratta
Et magis effecta est iniquitas populi mei peccato Sodomorum
L'unico racconto grazioso, secondo me, tuttavia è Il maestro delle corde, per merito della conclusione a sorpresa dall'aroma libertino; e peraltro anche qui del mondo della dominazione di stile giapponese, per com'è descritto, il Nostro pare avere una mera conoscenza de relato, o, per meglio dire, libresca: se lo conosce direttamente, vuol dire che lo raffigura in modo assai maldestro. Le chiuse a sorpresa, in realtà, sono un suo marchio di fabbrica: le adora, e di fatto contraddistinguono buona parte di questi racconti. Non è detto che nell'arte le sorprese dispiacciano sempre: le finte cadenze conclusive che Haydn amava inserire a volte nei finali delle sue Sinfonie, per esempio, sono deliziose; ma in narrativa bisogna dosarle con cautela, perché possono apparire con facilità un espediente per chiudere col botto una vicenda altrimenti fiacca e scipita: senza dire che, se quella che si legge verso la fine di Birbante, col rovesciamento dei ruoli di buono e cattivo, è una sorpresa vera, quella dell'ultimo racconto è, come direbbe l'Artusi, una sorpresa de' miei stivali: che a sconvolgere tanto il ragazzino scout sia la visione di due maschi dediti a trombare nella casa abbandonata, e non, tanto per dire, una messa nera o un sicinno di baccanti, risulta qualcosa che, dopo una serqua di novelle in tema, si aspetterebbe anche il più distratto dei lettori. Si riceve sempre, insomma, la sensazione della trovata meccanica piazzata lì per provocare l'effettaccio.
Crea uno stridente contrasto, a questo punto, la singolare freddezza della narrazione. La scrittura si presenta educata, distaccata, insapore; sembra che Botti abbia molte cose da dire, ma possegga per esprimerle soltanto i mezzi letterarî d'un liceale. Il racconto in prima persona è usato pochissimo, ed evitato persino dove sarebbe l'unico modo per donare un po' di colore alla pagina: in Se Dio vuole, per esempio, il ricorso alla terza persona soffonde d'un tono inutilmente didascalico e impacciato la storia del ragazzo cattolico che vive il contrasto fra le sue pulsioni gay e i dogmi religiosi che le considerano addirittura contronatura. Il guaio è, tuttavia, che tutte le vicende appaiono lontane dall'esperienza dello scrittore anche quando, magari, sono invece autobiografiche: Botti pare uno che mette in iscena non italiani (anzi, quasi sempre toscani: e Botti è di Arezzo) della propria generazione, bensì vietnamiti del Settecento, norvegesi del Medioevo e antichi sumeri; a lume di naso, direi che i ricchissimi bisessuali venuti a studiare a Bologna e rimasti lì a lasciarsi vivere, ed anche il maestro di cerimonie sado-nipponiche, non facciano proprio parte del quotidiano paesaggio gayo di Botti, ma l'impressione è, disgraziatamente, che non vi appartengano neppure scout e parrocchie, neppure la campagna toscana, e neppure nient'altro di ciò che compare in queste pagine.
E poi, va bene che ogni scrittore ha tutto il diritto di occuparsi dei casi umani che più gli garbano; va bene che il lettore dovrebbe applicare in modo generoso la sospensione dell'incredulità; ma insomma, fin che si parla di scout, chierichetti e montanari capisco che le esperienze gaye rimangano per forza frammentarie e limitate: però se si parla di studenti universitarî e gente che vive in città, possibile che non vadano mai a ballare, in palestra, a prendere il sole, a mangiare al ristorante, a fare shopping, magari anche a farsi un giretto, una volta ogni tanto, in un locale gay? Nato nel 1971 e dedicatosi a scrivere di uomini del suo tempo, Botti pare descrivere italiani degli anni Cinquanta; e soprattutto scrive soltanto cose che in mille hanno scritto prima di lui, e spesso anche molto meglio di lui.
P.S.: a tanto il Nostro non arriva nemmeno da solo: alla fine del libro, trova modo di riempire un'intera pagina di nomi di gente da ringraziare, famosa e ignota; eppure, dopo cotanto coadiuvato sforzo, vien da dire con Orazio, parturietur mons, nascetur ridiculus mus.