recensione diMauro Fratta
And we were never being boring, we dressed up and fought...
Arbasino, ad esempio, scrive un romanzo come se fosse un saggio: abbondano le note, e in un punto ci s'imbatte perfino in note alle note; ma, con perfida diversione, da esplicative le note divengono viepiù complicanti ed ammiccanti: sovente si compongono di citazioni. La citazione, si sa, è la cifra dello scrivere arbasiniano: e nella fattispecie, come in Fratelli d'Italia, le citazioni traboccano, lussureggiano, proliferano inquiete, inquietanti e incontrollate; interi passi ne sono un sapido e sapiente intreccio. Il racconto, poi, si nasconde, si frammenta, si assottiglia, entra nell'ombra per poi riemergere inatteso ed erratico altrove, premuto da una volontà vertiginosa di teorizzare e di riflettere su letteratura, società e politica. Naturalmente, per apprezzare l'opera occorre condividere con l'autore almeno una parte dei punti di riferimento culturali: la sottocultura gay di qualche lustro fa, gli scrittori francesi del Settecento, l'opera da Mozart a Verdi, la poesia inglese, certi autori nostrani soprattutto a cavallo tra secolo XVIII e XIX, le canzoni della rivista (il testo, pur modificato poi da Arbasino, risale nella sostanza alla fine degli anni Cinquanta), tutta una cultura lieve, in odor dicamp, da Noel Coward a Gilbert & Sullivan; altrimenti si rischia di perdersi e soprattutto, di perdere il delizioso effetto comico di tante trovate verbali.
In realtà, sotto il velame de li versi strani traspare quello che, secondo me, rimane il libro più politico di Arbasino; vi si portano avanti in parallelo infatti due ordini di considerazioni: quelle sui rapporti gay e quelle sulle ragioni e le esigenze della letteratura. Il periodo era fervido di bollori teorici: Arbasino stesso apparteneva alla corrente sperimentale del Gruppo 63, sebbene all'atto pratico, ribelle ai dogmi com'era, e dotato di così potente personalità stilistica, lo scrittore vogherese venisse poi a battere strade tutte sue; ma era un periodo altresì di mutamenti sociali, con un'Italia che si arricchiva rapidamente e cercava una sua via d'uscita dal tradizionale clima patriarcale e rurale collaudato da secoli.
E così il protagonista si trova (piacevolmente, a onor del vero) avviluppato fra una sperimentata vita di predatore in cinema e giardinetti, con particolare occhio per i militari in libera uscita, e due relazioni o tentativi di relazioni quasi paritarie con un ragazzo di poco più giovane, studente universitario come lui (e i titoli mattoidi dei corsi che seguono preludono in modo terribilmente profetico a quelli, di poco meno dementi, che abbiamo visto dilagare in questi ultimi lustri di "tre più due" e altre siffatte amenità accademiche): quasi paritarie perché vige ancora il modello socratico di maestro e allievo, salvo che l'allievo, riottoso alle istruzioni del sofisticatissimo ed esigente mentore, non mandi all'aria la liaison per rifugiarsi nell'ambiente più piatto ma nel contempo anche più confortevole delle gaye conventicole di provincia dedite soprattutto al pettegolezzo - e la Poppy che tanto incanta il giovane Roberto con le sue ciarle da settimanale illustrato viene dritta giù per li rami, of course, da Franca Valeri. Ci si fa strada perciò verso il rapporto di coppia moderno, ma fra mille difficoltà e lacciuoli; né manca le teorizzazione, da parte del protagonista, d'un diritto del maschio che ne ami un altro, a momentanee deroghe se capita l'occasione ghiotta di procurarsi aliunde un estemporaneo sex without love.
Quanto alla letteratura, il Nostro scorse con lucidità la natura sostanzialmente sterile e (auto)punitiva di tutte le specie di neorealismo allora tanto in voga e, a dir il vero, disguised o sub alio nomine ancora capaci di sedurre qualche ingenuo ai nostri giorni; rivendicava con gioia la discendenza, nella narrativa come nella saggistica, da filoni eccentrici ed opulenti; additava l'equivoco del prendere a modello una letteratura americana conosciuta male ed apprezzata per le ragioni sbagliate; mostrava l'energia vivificante delcamp, della satira, dell'ironia: e, a proposito d'ironia, giungeva a rivendicare i diritti sovrani dell'intreccio narrativo proprio in uno scritto dove l'intreccio si riduce all'osso.
Proprio in relazione a ciò bisogna, secondo me, leggere con estrema cautela, fra i numerosi padri nobili vantati dallo scrittore o a lui attribuiti (e ci sono anche le madri nobili: Colette in prima fila), la presenza di Giuseppe Parini: presenza, va detto, massiccia ed evidente nell'Anonimo lombardo, implicita ed esplicita; ma per ciò stesso da interpretare in maniera, per così dire, tangenziale. Col Parini, Arbasino condivide il fine in sostanza serio, politico ed etico d'una scrittura nervosa e guizzante di sorriso; ma nel medesimo tempo se ne distingue, perché Parini, pur appartenendo al mondo del Giovin Signore di cui fa la presa in giro, non è un Giovin Signore a sua volta, mentre Arbasino al mondo dei giovin signori moderni, sofisticatissimi letterati e predatori di bei ragazzi, appartiene a pieno titolo.
Ecco, a mio avviso, perché insieme col Giorno (e, assai meno, le Odi) del poeta insubrico, ricorre citato sovente Il Turco in Italia di Rossini (o meglio, il libretto che per esso compose Felice Romani), soprattutto nelle parti dove interviene il poeta Prosdocimo: questi nell'opera rossiniana è alla ricerca d'un soggetto per una commedia, e lo cerca proprio nelle vicende che intanto gli si dipanano davanti agli occhi; è, insomma, un soggetto esterno solo in apparenza, ché in realtà fa parte in pieno del mondo di Selim, di Donna Fiorilla e degli altri personaggi che compaiono sulla scena. E, a tal proposito, non ritengo casuale neppure che il libro si apra con una Medea scaligera (cantata, ovviamente, dalla Callas): mentre la Medea non ricompare più, ritorna di continuo il Turco (anche la prima Donna Fiorilla moderna fu, guarda caso, la Callas); ed erano ambedue, per quei tempi, riesumazioni di melodrammi caduti nel dimenticatoio (meno dimenticata la Medea, in realtà, la quale, viceversa, di recente un po' nel dimenticatoio è ritornata: ché non tutte le resurrezioni sono fortunate, e non tutte sono meritate): sembra che, con un esempio musicale, Arbasino intendesse quindi mostrare come anche nella narrativa e nella saggistica si potessero e si dovessero ricondurre alla luce filoni d'oro sepolti per uno svecchiamento autentico della nostra cultura che non si limitasse al belletto giovanilistico in verità ben più senile di ciò che è semplicemente vecchio.
L'eminente carattere ironico dell'opera si scorge anche dalla mescolanza di basso e di sublime: anzi, grazie all'ironia colta si riescono a far passare e a far digerire al lettore medio perfino allegre scurrilità gaye le quali, non che fungere da potenziali provocatrici di accigliate censure a quei tempi, ancor oggi potrebbero destare, senza il trobar clus arbasiniano, inconsulti fremiti poco goderecci nei lettori d'ipersensibile verecondia. A proposito di riferimenti alla sottocultura gay, non credo di sovraccaricare di esegesi fuori luogo e tirate per i capelli questa mia interpretazione cursoria e parziale, se ricordo anche come appunto il parlare per metafore, con allusioni, con un gergo a metà vistoso e a metà cifrato sia stato a lungo un contrassegno della comunità omosessuale, che grazie a tali diversioni linguistiche non solo si poteva nascondere agli occhi dei persecutori, ma riusciva per giunta a rafforzare un senso di complicità e di appartenenza; e ancora, però, Arbasino rimescola le acque: l'ammicco gay si fonde con l'ammicco intellettualistico, l'allusione al compagno di una squadra scivola nel richiamo a un'altra. E l'allusione velante o spiazzante a una paternità o a una finezza culturale non avrà dunque un fine di (fingere un bisogno di) protezione dalle consorterie avversarie? Non siamo ancor ai livelli virtuosistici di Fratelli d'Italia, la struttura rimane più grezza e schematica, ma già qui ogni pagina di Arbasino, fra salacie ed eleganze, confonde di continuo le prospettive proprio mentre sembra fornire, pur fra le trine morbide, risposte impegnate e definitorie. Ed è proprio grazie a quest'iridescenza di fondo che, a mezzo secolo di distanza, le pagine dell'Anonimo lombardo rimangono, oltre che vivacissime, brillanti e saporite, anche terribilmente attuali.