recensione diMauro Giori
Skyfall
Nel cinquantesimo anniversario (cinematografico) dell’icona pop creata da Fleming nel 1953, Sam Mendes, che qualcuno aveva scambiato per un maestro ai tempi di American Beauty, dirige il ventitreesimo film bondiano a partire da malriposte ambizioni. In un’intervista ha dichiarato di essersi ispirato a Il cavaliere oscuro (2008), a suo dire un film rivoluzionario perché avrebbe dimostrato che «si può fare un grosso film che sia avvincente e divertente e che abbia molto da dire sul mondo in cui viviamo». Ho la vaga impressione che prima del 2008 questo fosse già stato occasionalmente dimostrato da qualche centinaio di esemplari di cultura popolare di successo, cinematografici e non. Ad ogni modo mi sembra che tale aspetto sia il meno riuscito di Skyfall, soprattutto perché è pagato con una seriosità estranea al personaggio di Bond, senza contare che le tirate di Judi Dench (sempre un po’ costretta nel ruolo di M) sui nuovi pericoli del mondo contemporaneo – dove i “cattivi” non sarebbero più nazioni ma singoli individui, come se non fosse stato quasi sempre questo il caso nei film di 007 – lasciano il tempo che trovano e possono dire qualcosa “sul mondo in cui viviamo” giusto a chi si sia risvegliato l’altro ieri da un coma di almeno un paio di lustri. A tutti gli altri il successo dell’ideologia destrorsa e nostalgicamente imperialista della saga bondiana dice molto sul mondo in cui viviamo di per sé.
Il che non impedisce di trarne sommo diletto, dal momento che il meccanismo della serie – ormai solo vagamente ispirata ai romanzi di Fleming – è rodato a sufficienza da poter vantare una soglia minima di efficacia garantita. Nel caso specifico di Skyfall, la carta vincente è da cercare nella sua autoreferenzialità, ovvero in una certa aura celebrativa e nostalgica, che arrischia persino un Bond un po’ affaticato, per quanto sempre immarcescibile. Se il ritorno in Scozia spreca gli accenti dolenti e insegue inutilmente un approfondimento del rapporto tra Bond e M (come se nei tipi fosse proficuo scavare a tutto tondo), riesumare l’Aston Martin di Goldfinger sortisce sempre il suo effetto, così come funzionano le ironie sulle nuove tecnologie, con il novello Q nerd in erba (ma tutto considerato singolarmente inefficiente, in modo da non offuscare il superomismo dell’eroe titolare).
Il film si apre con il solito inseguimento nel terzo mondo (che nella serie di Bond è ancora tale), nel quale l’impero occidentale può permettersi imprese inutilmente chiassose e reboanti, gratuitamente demolitrici e noncuranti del locale ordine pubblico. Nel mentre i morti ovviamente non (si) contano. Si procede con il non meno consueto sprezzo di ogni verosimiglianza (scegliereste la National Gallery in pieno giorno per rifornire Bond delle sue nuove armi?), tra lunghe sequenze di varia spettacolarità e brevi accenni romantici, con la girl di routine ammazzata senza troppo rammarico e senza troppo indugio sulle sue grazie.
Quest’ultimo aspetto è singolare di per sé, ma soprattutto rispetto all’antagonista vistosamente omosessuale: è segno forse dei tempi nuovi il fatto che non si senta il bisogno di compensarne la presenza rifornendo Bond di riviste patinate per i momenti di solitudine e con esemplari in carne e ossa per lunghi avvinghiamenti su tappeti di pelle di tigre stesi davanti a camini scoppiettanti in chalet d’alta quota, come nei bei tempi andati, in cui i luoghi comuni di ammassavano in quantità industriali anche negli intermezzi rosa.
Quanto a Silva, il perfido collega di Bond andato in acido e interpretato da Bardem, trattasi dell’immancabile villain megalomane in vena di vendette su larga scala. Né associare omosessualità e criminalità può dirsi una trovata sorprendente, ché c’era arrivato già Fleming stesso percorrendo una strada ampiamente spianata ai suoi tempi, considerato il taglio ideologico d’elezione. I film della serie bondiana erano tuttavia sempre stati discreti, presumibilmente per motivi di censura, trattandosi di avventure iperboliche sì, ma per quiete famiglie borghesi amanti di un esotismo non più che cartolinesco.
Facevano eccezione solo la Rosa Klebb interpretata da Lotte Lenya in A 007, dalla Russia con amore (1963) e la coppia Kidd/Wint di Agente 007 - Una cascata di diamanti (1971). Ma una spia russa sgraziata, nana e lesbica si poteva concedere, perché non aveva mezzi per insidiare l’eterosessualità dell’eroe, così come non disturbano troppo due killer che delle volontà della mente diabolica di turno sono solo esecutori, a patto quantomeno di sguazzare in entrambi i casi in un oceano di stereotipi. Bardem contiene invece le moine del suo Silva e si permette avance pressanti nei confronti di Bond, rompendo con la tradizione che voleva gli antagonisti competitivi (e ovviamente largamente perdenti) rispetto a Bond anche sul piano sessuale.
Una certa misura nelle affettazioni non impedisce allo spettatore di comprendere tutto quello che c’è da comprendere senza bisogno di parole esplicite, tanto che Silva mi ha ricordato il Gabriel recitato da Bogarde in Modesty Blaise (1966), forse perché entrambi ossigenati all’inverosimile e reclamanti rapporti “complicati” con la madre. Se poi a qualcuno dovesse sfuggire qualcosa, ecco che Silva reinventa un topos immancabile dei film machisti d’antan, quello che prevede almeno una scena con l’eroe legato come un salame e in balia del nemico. Solo che qui non viene immobilizzato per essere torturato, ma solo per essere meglio accarezzato, senza che questi ovviamente si scomponga. La sua risposta è invece molto british: quando Silva gli chiede se stia cercando di ricordare cosa preveda il manuale della giovane marmotta spionistica di fronte alle prime avance di un villain gay, Bond gli risponde: «Chi ti dice che sia la prima volta?». Una battuta che Connery avrebbe recitato con un sorriso appena accennato sul volto e con puerile compiacimento, mentre Craig bofonchia tutto con la sua imperturbabile maschera funerea. Del resto il suo Bond è capace persino di svaccarsi a tracannare birra da una bottiglia, mentre lascia il suo Martini intatto sul bancone. Per quanto si giochi con la nostalgia, i tempi d’oro di Bond sono proprio passati.