recensione diMauro Giori
Shakespeare in Love 2: la vendetta del conte di Oxford
Emmerich, già regista di Independence Day e The Day After Tomorrow, si muove nel mondo di Shakespeare come un elefante in un negozio di cristalli. Del resto, non a caso è anche il regista di Godzilla.
La vicenda di per sé sarebbe pure intrigante: giusto la questione omerica sta infatti alla pari con quella shakespeariana, vale a dire con i dibattiti sull’identità del Bardo che si sono susseguiti nell’ultimo secolo e mezzo. Emmerich e lo sceneggiatore John Orloff ricamano su una delle teorie più celebri, quella, avanzata negli anni Venti e poi rilanciata a varie riprese, secondo la quale il vero autore delle opere di Shakespeare sarebbe Edward de Vere, diciassettesimo conte di Oxford. William Shakespeare sarebbe invece stato solo un prestanome, un attore mediocre usato dal conte per rimanere nell’anonimato per questioni di decoro sociale.
Emmerich e Orloff si spingono fino a fare del loro nobile eroe non solo l’amante e anzi l’unico grande amore di Elisabetta I (una Vanessa Redgrave per cui il film merita una scorsa), ma addirittura suo figlio. E così nientemeno che la regina vergine, non più vergine per l’occasione, quasi a miracol mostrare garantisce dell’eterosessualità del “vero” Shakespeare. Questi peraltro si prende infine cura del prodotto di tanto incesto, ovvero Henry Wriothesley, terzo conte di Southampton, secondo molti studiosi destinatario dei sonetti omosessuali del Bardo. Ora, lo spettatore non proprio digiuno di letteratura può anche ridere all’idea che il figlio incestuoso della regina, presoci gusto, replichi tale singolare pratica nei confronti del suo stesso figlio, ma ovviamente il film invita indirettamente lo spettatore medio a espungere anche dai sonetti qualsivoglia insinuazione di omoerotismo per farne solo metafore di amore paterno. Innegabilmente un bel risultato per un regista gay dichiarato come Emmerich.
Come non bastasse, di tutto l’ambiente teatrale elisabettiano rappresentato nel film – ambiente che secondo gli esperti del periodo pullulava di disinvolte pratiche sessuali – rimane solo un breve cenno all’omosessualità del drammaturgo Christopher Marlowe: eliminarla sarebbe stato ridicolo, dichiararla esplicitamente può anche dare l’impressione che il film sia onesto e rigoroso anziché peccare di reticenza laddove invece pecca di reticenza, e pure sino ai limiti del risibile, né più né meno di quanto era avvenuto in Shakespeare in Love. In più, Marlowe è il cattivo di turno, quindi che sia pure l’unico omosessuale di questa Inghilterra elisabettiana eterosessuale come la poteva sognare Margaret Thatcher (incesti a parte) non fa scandalo e anzi rientra in uno schema morale al limite del reazionario.
Peggio della sceneggiatura c’è solo la fotografia di Anna Foster, che non potrebbe essere redenta nemmeno mettendo insieme tutti i computer di Hollywood.