recensione di Marco Valchera
Bill Clegg, La fine del giorno
Dana Goss, ricca aristocratica bisessuale e affetta da demenza senile, decide, dopo più di quaranta anni, di ritornare nella piccola cittadina del Connecticut dove trascorreva le estati, Wells, per consegnare alla sua ex migliore amica Jackie (ormai vedova dell'amato marito Floyd), con la quale i rapporti si sono bruscamente interrotti, una valigetta contenente documenti che dovrebbero rivelare la verità su quanto accaduto il Quattro luglio di alcuni decenni prima e sconvolgere le convinzioni sulle quali quest'ultima ha costruito la propria vita e il proprio matrimonio. Lupita, figlia dei domestici di casa Goss, vittima di razzismo fin da bambina per le sue origini messicane e di violenze e di abusi, guida taxi turistici nel punto più marginale degli Stati Uniti, a Kauai, fino a quando riceve una telefonata che la costringerà a dover fare i conti con il passato, la sua famiglia e i traumi adolescenziali.
Il romanzo è, infatti, interamente giocato su un largo uso di flashback che dipanano la tela degli eventi e che disegnano, passo dopo passo, le esistenze delle tre donne. L'autore torna a riflettere sull'incomunicabilità dei personaggi e sulla loro convinzione di possedere la verità assoluta quando invece, come nel caso di Dana, se ne ha, in fin dei conti, una conoscenza parziale e scorretta. In particolar modo, si interroga sull'influenza che il passato possiede sul presente: è possibile accettare quanto avvenuto da ragazzi? E, soprattutto, vale la pena rivangare i ricordi sconvolgendo ciò che si pensa di sapere e ciò che, con difficoltà, si è diventati?
Domande che si riflettono anche su Hap, il protagonista maschile che compare nella seconda parte del romanzo e che incarna una malinconica riflessione sulla paternità: divenuto genitore da alcuni giorni, si trova al capezzale del padre morente, Christopher, che è stato sempre assente rispetto al patrigno Mo, che, però, egli ha trattato con freddezza accusandolo implicitamente di essersi intrufolato nella sua famiglia. A causa delle rivelazioni finali di Dana, Hap, personaggio fragile e in crisi con se stesso, dovrà decidere se rivoluzionare tutte le sue deboli certezze.
Bill Clegg, come un perfetto demiurgo, riesce a tenere in mano tutte le fila della narrazione e lo fa con una prosa elegante, evocativa e ricca di splendide digressioni descrittive che, alla lunga, sembrano quasi prendere il sopravvento sulla storia: è abbastanza semplice, difatti, sciogliere la matassa ancor prima dell'ultima parte del romanzo anche se, proprio grazie alla bellezza delle immagini e delle similitudini presenti, si resta colpiti fino all'ultima pagina.
Nota di demerito per Bompiani: mai mi era capitato - eccezion fatta dell'ultimo bel romanzo di Jonathan Coe, Io e Mr. Wilder, pubblicato, però, da Feltrinelli - di leggere una tale quantità di refusi che danneggiano il patto narrativo con il lettore. Si va da "aveva sento" ("aveva sentito") a infinte volte ("infinite volte") al gonfino rosa ("golfino rosa") fino, addirittura, alla protagonista che viene ribattezzata, a un certo punto, "Diana". Una rilettura, di certo, avrebbe giovato.