120 battiti al minuto, o di alcune parole non dette

4 febbraio 2018

Negli ultimi anni l’Aids è tornato al centro di tutta una serie di opere che hanno unito cronaca dell’epidemia e cronaca della militanza gay. Basti ricordare Normal Heart (2014), che per mediazione della penna di Larry Kramer ha rievocato grosso modo la storia dei primi anni dell’Aids negli Stati Uniti a partire dall’omonimo dramma del 1985, o ancor prima Act Up! (2012), documentario sul movimento fondato nel 1987 che è al centro anche di 120 battiti al minuto. Nel 1989 la Francia aveva infatti prontamente importato forme, slogan e intenti dell’aggressivo gruppo di militanti newyorkesi.

120 battiti al minuto da noi è conosciuto soprattutto per la sgraziata polemica sollevata dal suo distributore italiano, che si è pubblicamente lamentato del mancato sostegno (alla sua attività commerciale) da parte della comunità oggi nota per l’acronimo che consuma ormai mezzo alfabeto. Tutto ciò è ovviamente un peccato per l’opera in quanto tale, benché mi sembri senza infamia e senza lode, e non certo perché, come qualcuno ha scritto, giunga troppo tardi per interessare.

Trascurando allora tanto la polemica quanto l’inqualificabile scelta di vietare il film ai minori di 14 anni con cui l’Italia si conferma orgogliosamente ancorata al suo catto-medioevo culturale, mi sembra che a merito del regista e sceneggiatore Robin Campillo sia da ascrivere la scelta di alternare dibattiti e azioni tramite una lunga serie di anacronie (che ormai sono pane quotidiano della serialità televisiva, quindi alla portata anche dello spettatore più pigro, e anche in dosi massicce). I continui scarti temporali consentono così di infondere dinamismo alle lunghe discussioni del gruppo inframmezzandole con le azioni spesso clamorose effettivamente intraprese. L’anello debole della catena narrativa del film è invece il piano personale, che avrebbe necessitato di maggior cura per riuscire coinvolgente come si sarebbe voluto. Campillo mette infatti un ragazzo in particolare, Sean, al centro del racconto, offrendolo allo spettatore come guida tra vicende altrimenti a rischio di sterilità, e come martire per muovere a commozione. Il problema è che in realtà di Sean noi non sappiamo quasi nulla, e poco più di quello che sappiamo di tutti gli altri, e cioè in sostanza cosa dice alle riunioni, come balla e come fa sesso. L’esistenza di tutti i personaggi si esaurisce infatti tra le interminabili discussioni di Act Up e nottate in discoteca.

Non so quanto questa dialettica rispecchi (e possa davvero ambire a esaurire) la vita effettiva dei militanti di Act Up Paris. Spero poco. Certo è facile immaginare che lo sfogo in discoteca voglia rappresentare il rifiuto di arrendersi non solo alla malattia ma anche all’imperversare del millenarismo che ne ha accompagnato la comparsa, così come, per esempio, la masturbazione di Sean in ospedale ad opera del compagno Nathan. Ho però l’impressione che qualcosa nel mezzo sia andato perso, ovvero tutta una dimensione quotidiana di vita autentica, di interessi e di piaceri altri dal letto, di attività altre dal discutere di preservativi e di slogan, che pure di una militanza fondata sull’identità dovrebbe essere parte integrante anziché accidente trascurabile. Qualcosa (non tutto beninteso, ma certo qualcosa di più di un discorso postcoitale sulle mamme o di un flashback su uno stupro) sarebbe stato necessario mettere sul piatto se proprio di questo Sean ce ne doveva importare così tanto quanto vorrebbe la sceneggiatura, se cioè oltreché un simbolo doveva essere anche una figura a tuttotondo.

Stando invece così le cose, tutto sommato si capisce anche perché Nathan, quando Sean gli confessa in ospedale per la prima volta di aver paura, non sa far di meglio che infilargli una mano nelle mutande: se tutto quello che sa di Sean è quello che sappiamo noi, cos’altro poteva fare? Cosa avrebbe potuto dirgli, in mancanza di uno slogan pronto? Dirgli, beninteso, non in alternativa, ma in aggiunta o come premessa a quello che gli fa: trovo infatti condivisibile l’uso del sesso e del piacere come strumenti di rivendicazione anche politica di identità, e come occasione, più in generale, per reclamare il diritto a vivere (era poi una delle lezioni che aveva lasciato Michel Foucault, vittima tra le più eccellenti dell’AIDS in Francia, giusto qualche anno prima). Tuttavia di quelle parole non dette si sente la mancanza in un film che di parole è in buona parte fatto ma che rischia di non saper andare oltre la retorica appunto degli slogan (pur spesso brillanti) per toccare corde di autenticità emotiva e di semplicità che pure vistosamente ambirebbe a far vibrare.

Sui primi anni dell’AIDS, che costituiscono una parte così importante e nevralgica della nostra storia, continuo dunque a preferire (con buona pace dei distributori italiani del film) altri lavori, più articolati, più convincenti, meno semplicistici nel ritrarre personaggi che non siano solo bei corpi refrattari a veicolare convincenti rappresentazioni della malattia, da Torka aldrig tårar utan handskar a Angels in America, compreso lo stesso Normal Heart.

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