Michel de Montaigne

16 dicembre 2005, "Babilonia", n. 205, dicembre 2001, pp. 54-57 con il titolo "Nella torre di Montaigne"

Michel de Montaigne, uno dei più grandi scrittori di ogni tempo, a 47 anni si ritirò nella sua torre per i scrivere i Saggi, nati per il fortissimo amore che nutrì per Étienne de la Boétie.


Michel Eyquem de Montaigne nacque nel 1533 nel castello di Montaigne. Suo padre, Pierre Eyquem, discendente di mercanti arricchitisi e sposato a Antoinette de Louppes, un'ebrea di origini spagnole, era il signore di Montaigne, presso Bordeaux, al confine fra il Périgord e la Guyenne. A sei anni - dopo aver imparato il latino come una lingua viva dalla bocca del suo precettore - andò a studiare nel Collège de Guyenne di Bordeaux, giudicato il migliore di Francia, dove ebbe ottimi insegnanti umanisti, che gli dettero le basi per la sua enorme cultura, incentrata in particolare sui classici. Poi scelse la strada degli studi giuridici. Mentre il padre era sindaco di Bordeaux, nel 1554 Michel, ad appena ventun'anni, diventò consigliere alla corte di Périgueux. Nel 1557 entrò nel parlamento di Bordeaux, dove conobbe, l'anno seguente, Étienne de la Boétie. Nel 1565 si sposò, senza eccessivo entusiasmo, con Françoise de Chassaigne, figlia di un collega al Parlamento, in quello che è stato definito un "mariage de raison", un affetto tranquillo per una donna che attendesse ai lavori casalinghi. Da lei ebbe una figlia, Léonore (oltre ad "altri due o tre", così racconta Montaigne nei Saggi, morti in fasce). Nel 1568, in seguito alla morte dell'amatissimo padre, Michel diventò il proprietario e signore di Montaigne (lui fu il primo della discendenza ad abbandonare il cognome Eyquem per prendere il nome della proprietà ereditata). Diviso fra trasferte a corte a Parigi, missioni di guerra - era il tempo delle aspre e sanguinose guerre di religione, fra cattolici e ugonotti, il cui momento più tragico fu l'orrendo eccidio della notte di San Bartolomeo del 1572 - rimase nella sua carica di consigliere presso il parlamento di Bordeaux fino al 1570.


In quell'anno - disgustato per l'esercizio della giustizia, a suoi occhi spesso iniqua e assurda - cedette la sua carica di magistrato e si ritirò nella torre del suo castello a scrivere i Saggi (Essais), che saranno pubblicati per la prima volta nel 1580. Nel 1582, sollecitato dal re Enrico III, assunse la carica di sindaco di Bordeaux. Nel 1588 conobbe Mademoiselle Marie Le Jars de Gournay, che ammirò i suoi scritti, diventando la sua "fille d'alliance" e poi la sua depositaria testamentaria. Impegolato nelle guerre di religione, seguì le vicissitudini del re, finendo anche imprigionato, sia pure solo per qualche ora, alla Bastiglia. Quando fu ucciso Enrico III e diventò re Enrico IV, ossia Enrico di Navarra, Montaigne si ritirò per sempre nella sua torre, curando le varie edizioni dei Saggi. Morì nel 1592, in chiesa, mentre si elevava l'ostia.


Nel 1570 Montaigne si isola dunque nella torre circolare del suo castello, in una stanza al terzo piano, contornato da una biblioteca di un migliaio di libri (molti dei quali lasciatigli da la Boétie), ricchissima per l'epoca, disposti ordinatamente in cinque file e pronti ad essere sfogliati. Sulle travi fece scrivere 57 massime (fra cui 25 greche e 31 latine), che furono a fondamento del suo pensiero, basati soprattutto sugli amati classici, chiamati ripetutamente in causa (nei Saggi si contano ben 1264 citazioni e 800 tra proverbi e modi di dire), soprattutto per quanto riguarda la storia e la biografia (non a caso è Plutarco il suo autore preferito ed Epaminonda il suo modello per eccellenza).


I motivi del suo ritiro furono molteplici. Innanzitutto, la stanchezza della vita pubblica, nella quale non credeva più, a favore di quella privata; una scelta, questa, da novello Cincinnato, che rispondeva anche uno stereotipo tipicamente rinascimentale, che contrapponeva il sano e sapiente otium ai fastidi del negotium pubblico. C'era inoltre il bisogno di riservare a se stesso quell'ultima parte della sua vita (nel '70 Montaigne aveva 47 anni, un'età abbastanza alta relativamente a quella media dell'epoca, più o meno equivalenti ai 65 anni del giorno d'oggi).

Ipotesi tutte plausibili, queste, alle quali però è giusto aggiungerne, o meglio premetterne, un'altra, con ogni probabilità la più importante: l'amore per Étienne de la Boétie e il dolore per la sua scomparsa. La Boétie era morto, ad appena trentatre anni, probabilmente di peste, fra le braccia di Michel, che lo curò amorevolmente e con un'abnegazione mai più mostrata per nessun'altra cosa nella vita. Montaigne non si riprese mai da quella scomparsa. Per alcuni anni rimase come inebetito e senza forze, finché non prese la decisione di ritirarsi a scrivere i Saggi, i quali, come dice lui stesso, sono nati da "un umore malinconico, prodotto dalla tristezza della solitudine". Essi, dunque, sono stati concepiti proprio per Étienne, come ha affermato Pierre Legendre nel 1992 su Le Monde: "E' grazie ad un colpo di fulmine e ad un immenso dolore amoroso che sono nati i Saggi". Essi sono dunque, oltre che omaggio dedicato all'amico scomparso, un qualcosa che vuole riempire quel vuoto lancinante ed incolmabile e, nello stesso tempo, quasi un mezzo, sia pure virtuale, per continuare a dialogare con lui.


I Saggi nascono dunque per un bisogno personale. Dato che i rapporti fra gli uomini sono quasi sempre inefficaci e falsi ("gli altri non vi vedono affatto; vi indovinano per congetture incerte"), Montaigne rivendica con forza l'assoluta necessità di un mondo tutto proprio:

è in nostro potere rifugiarci in noi stessi quando lo vogliamo" per vivere in "una retrobottega tutta per sé; tutta nostra, del tutto indipendente, nella quale stabilire la nostra vera libertà (...) come se fossimo senza moglie, senza figli e senza sostanze, senza seguito e senza servitori.

È lì che ognuno troverà le leggi più vere, quella della coscienza:

Ognuno può aver parte alla commedia e rappresentare un personaggio onesto sulla scena; ma di dentro e nel suo petto, dove tutto ci è permesso, dove tutto è nascosto, mantenersi in regola qui, questo è il punto (...) Noialtri soprattutto, che viviamo una vita privata che è nota solo a noi stessi, dobbiamo aver stabilito un modello nell'intimo, al quale confrontare le nostre azioni (...) Io ho le mie leggi e il mio tribunale per giudicare di me.

Redatti in tre successive versioni, di volta in volta più ricche, i Saggi, divisi in tre libri, sono un'opera eccezionale. Pochi altri scritti sanno parlare con tanta profondità al lettore moderno, il quale spesse volte non può fare a meno di rimanere estasiato di fronte a riflessioni così acute e, spesso, attuali. Nell'opera - volutamente disorganica nel quale l'autore ama fingere, con un pizzico di retorica, di essere un dilettante e di sottovalutare il proprio scritto, da lui definito però "l'unico libro al mondo nel suo genere" - Montaigne disquisisce su tutto, seguendo le proprie "fantasticherie", alimentate da una curiosità sempre inappagata:

Nessun intelletto generoso si ferma su se stesso: aspira sempre ad altro e va al di là delle proprie forze; ha slanci che oltrepassano le sue possibilità; se non avanza e non si affretta e non indietreggia e non si urta, è vivo soltanto a metà; le sue indagini sono senza limite, e senza forme; il suo alimento è stupore, caccia, ambiguità.

Interessato per principio soprattutto all'uomo, i Saggi sono però in realtà praticamente un'enciclopedia e finiscono col toccare ogni argomento: da Dio alla natura, dalle stelle agli animali, dalla politica alla struttura e al senso dell'universo, fino "all'intera filosofia morale".


Dall'alto della sua torre, Montaigne osserva con ironica curiosità (e a volte con scoramento) la terra e le miserie umane. Figlio di una generazione lacerata da problemi religiosi ed esistenziali, lo scrittore non ha regole assolute da impartire; non vuole insegnare niente a nessuno ma, al contrario, pieno di dubbi egli stesso, semina il dubbio dove trova le certezze. Attraverso un linguaggio semplice ed incisivo, Montaigne, cattolico credente, è certo dell'esistenza di Dio. Ma sa essere spietato contro la sicumera dell'uomo e le sue stupide presunzioni, irridendo quella "dignità dell'uomo" posta alla base dell'Umanesimo ("questa povera disgraziata creatura, che non è neppure padrona di se stessa [...] e tuttavia osa definirsi signore e imperatore dell'universo". Non c'è un solo uomo che, pur forte e ammirato all'esterno, nel suo privato non abbia momenti di meschinità o debolezza ("pochi uomini sono stati ammirati dai loro domestici", dice sarcasticamente Montaigne).

Secondo lui, tutti gli uomini, re compresi ("anche sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo"), sono in balia di un'instabilità perenne, nella quale neanche la ragione - utile più per indagare che per decidere ed incapace di cogliere qualsiasi verità - può essere utile. In un mondo, dal "flusso, mutamento e variazione perpetua" e dominato dal caso, "non c'è nulla di più vano, vario e ondeggiante dell'uomo". Così, ciascuno può riconoscersi in ciò che dice lo scrittore francese:

Io che mi spio più da vicino, che ho gli occhi incessantemente tesi su me stesso, a malapena oserei dire la vanità e la debolezza che trovo in me. (...) se la salute mi ride e la serenità di una bella giornata, eccomi amabile: se ho un callo che mi fa dolere l'alluce, eccomi corrucciato, stizzoso e intrattabile... Ora mi va di far tutto, ora niente; quello che mi fa piacere in questo momento, talvolta mi sarà penoso.

A causa dell'inaffidabilità e varietà delle umane opinioni, alla fine tutto è relativo, tanto da far sospendere ogni giudizio. Il discorso si fa ancora più pregnante se si allarga lo sguardo ad altre civiltà. Con riflessioni finissime, che sembrano sorprendentemente anticipare l'antropologia culturale e l'etnografia, Montaigne nota come ciò che sembra normale a noi, non lo è per uomini di altre culture e viceversa ("I barbari non ci appaiono per nulla più strani di quanto noi sembriamo a loro" e "ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi") per arrivare alla conclusione che "Le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono dalla consuetudine (...) quello che è fuori dei cardini della consuetudine, lo si giudica fuori dei cardini della ragione". A mo' di esempio ricorda che vi sono società "in cui le vergini mostrano scoperte le loro vergogne (...) si vedono bordelli pubblici di maschi (...) le donne vanno alla guerra (...) le donne pisciano in piedi, gli uomini accosciati". Nella difesa del rispetto delle altri civiltà, arriva addirittura, in una pagina provocatoria quanto famosa, a difendere il cannibalismo dicendo, riferendosi alle lotte intestine francesi: "Penso ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo da morto".


La modernità di Montaigne non finisce però qui. Benché di fondo fosse un conservatore in politica, poiché non amava i cambiamenti e invitava a rispettare le leggi e la tradizione, egli dimostra, con sorprendenti rivelazioni, di non accettare supinamente le tradizionali norme di comportamento della propria epoca, dalle quali si distacca con vigore. Così, difende le streghe, probabilmente malate più che criminali, le donne - la cui sottomissione all'uomo deriva non dalla natura ma "dall'usurpazione" - e gli animali, che non è detto siano inferiori agli uomini ("Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa se essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei?"). E sono incredibili, se rapportate alla sua epoca, le sue considerazioni sul tabù sessuale:

Che cosa ha fatto agli uomini l'atto genitale, così naturale, così necessario e così giusto, perché non si osi parlarne senza vergogna e lo si escluda dai discorsi seri e moderati? Noi pronunciamo arditamente: uccidere, rubare, tradire; e questo, non oseremmo dirlo che fra i denti? (...) Non siamo forse veramente bruti, nel chiamare brutale l'azione che ci produce?.

Le pagine più dolorose e pungenti, e forse anche le più belle, sono però quelle che riguardano la sfera squisitamente privata. C'è chi ha identificato nelle tre edizioni dei Saggi tre diverse visioni del mondo dello scrittore, il quale passa da una visione stoica, ad una scettica (a questa risale il celeberrimo "Que sais-je?", ossia "che cosa so?") fino all'ultima, più matura ed intima. In questa, scritta poco prima della morte, Montaigne si abbandona a considerazioni amare e crude, che hanno come soggetto privilegiato il proprio corpo ormai decrepito, roso dal mal della pietra ("Il mio mondo è finito, la mia forma è svuotata; io appartengo al passato... Il tempo mi abbandona: senza di esso nulla si possiede"). Così, le sue osservazioni si incentrano sempre di più sui bisogni primari che scandiscono le sue giornate solitarie, raccontati in dettaglio e senza perifrasi (si va dall'amore per i meloni e le salse alla sudorazione eccessiva quando dorme, dal senso di giovamento che prova nel grattarsi al colore dell'urina). Così, il cerchio si chiude, in ragione di una delle frasi, scritta dal latino Terenzio, incise sulle travi della torre: "Homo sum, humani a me nihil alienum puto", ossia "Sono uomo e ritengo che nulla di ciò che è umano mi sia estraneo".


Montaigne conobbe Étienne de la Boétie, ventottenne e perciò tre anni più grande di lui, nel 1558. Questi si era già fatto apprezzare per un energico saggio, scritto a sedici anni e pubblicato due anni più tardi: Discours sur la servitude volontaire, conosciuto in seguito anche come Le Contre Un, nel quale esprime il proprio amore per la libertà ed un acuto odio verso la tirannide così come verso la ricerca del proprio tornaconto personale ed invita, se il caso, alla disobbedienza civile. Di bello e nobile aspetto, Étienne affascinò Montaigne per l'eccezionale personalità e per la cultura poliedrica, capace di originali apporti in politica come in diritto, nella poesia come nella filologia.

Nei Saggi Montaigne ricorda più volte, sempre con delicatezza e mai sopito rimpianto, il suo rapporto con Étienne, di straordinaria intensità, nonostante il fatto che si incontrassero non certo frequentemente e le forti differenze di carattere (tanto Michel era riservato, tanto l'altro era fiero ed estroverso). Esso riluce però soprattutto nel XXVIII capitolo, sicuramente il più celebre del capolavoro dell'umanista francese: Dell'amicizia.


Il capitolo è di straordinaria bellezza e non si può che consigliare a tutti di leggerlo, poiché di sicuro se ne esce profondamente arricchiti. Nominato Étienne col pretesto del suo pamphlet sulla libertà, Montaigne ne approfitta per spiegare quale tipo di rapporto li avesse tenuti legati nei quattro anni nei quali si erano frequentati. Designato dall'altro erede della sua biblioteca, delle carte e dei libri, Montaigne definisce l'amicizia con Étienne "completa e perfetta", così tanto che forse non ne è mai esistita una simile o, tutt'al più, viene dispensata dalla fortuna una volta ogni tre secoli.

Per meglio chiarire il concetto, Montaigne distingue quattro tipi di amicizia: naturale, sociale, ospitale ed erotica. Nessuna di queste però, a ben vedere, è paragonabile a quella che lui ha avuto la fortuna di condividere con Étienne. Non quella fra padre e figlio, separati da un'esasperata disparità e dall'ovvia differenza d'età; non quella tra fratelli, fin troppo spesso divisi da problemi materiali di eredità; non quella con le donne, sicuramente cocente ed intensa, ma soggetta ad "un fuoco cieco e volubile, ondeggiante e vario"; non quella alla base del matrimonio, niente altro che "un accordo che si fa in genere per altri fini"; non quelle, infine, che abitualmente vengono chiamate, con grande leggerezza, amicizie, in realtà "solo delle dimestichezze o familiarità annodate per qualche circostanza o vantaggio".


No, l'amicizia di Michel e Étienne era un'altra cosa, frutto di una inesplicabile quanto fatale forza ("Le nostre anime hanno camminato così unite, si sono considerate con affetto tanto ardente, e con pari affetto si sono scoperte l'una all'altra fin nel più profondo delle viscere, che non solo io conoscevo la sua come la mia, ma certo mi sarei più volentieri affidato a lui che a me stesso". L'intesa fu rapidissima: da subito "ci cercavamo prima di esserci visti (...) ci abbracciavamo attraverso i nostri nomi"; da quel momento "ci trovammo tanto uniti, conosciuti e legati l'uno all'altro, che da allora niente fu a noi tanto vicino quanto l'uno all'altro". Scattò dunque "una non so quale quintessenza di tutta quella mescolanza che, afferrata tutta quanta la sua volontà, la condusse a immergersi e perdersi nella mia, con uguale desiderio, uguale slancio". Dico perdersi, in verità, poiché non ci riservammo nulla che ci fosse proprio né che fosse o suo o mio".

In quell'amicizia - indivisibile, poiché "ciascuno si dà al proprio amico tanto interamente che non gli resta nulla da spartire con gli altri" - così lontana dalla norma quanto armoniosa, è come se ci fosse stata un'anima in due corpi, una "confusione di volontà", tanto che si può parlare di un altro se stesso. Così, per essa non valgono quelle parole che "dividono e differenziano", come beneficio, obbligo, riconoscenza, preghiera, ringraziamento o simili.


Il finale è però amaro. Ricordando quanto veloci siano stati quei quattro anni, lo scrittore ammette straziato che ora, senza l'amico, la sua vita "non è che fumo, non è che una notte oscura e noiosa" e che "Da quando lo persi, non faccio che trascinarmi languente (...) Di ogni cosa facevamo a metà; mi sembra di sottrargli la sua parte. Ero già così assuefatto e abituato ad essere in due dappertutto, che mi sembra di non essere più che a metà".

Ma come è potuto nascere un rapporto così profondo e perché proprio Étienne? In quella che è la più famosa frase dei Saggi, Montaigne dice con trepidazione ed orgoglio: "Se mi si chiede di dire perché l'amavo, sento che questo non si può esprimere che rispondendo: 'Parce que c'était lui; parce que c'était moi' ("Perché era lui; perché ero io"). Non sappiamo con certezza, per quanto altamente probabile, se fra i due ci sia stato anche qualcosa di fisico, giacché Montaigne non ne fa il minimo accenno. Il fatto è che in realtà mai e poi mai lo scrittore lo avrebbe ammesso, poiché ciò sarebbe stato in contrasto con le regole letterarie dell'epoca (ma non certo ai costumi, poiché, giusto per rimanere in ambito francese, fu sulla bocca di tutti il legame fortissimo che vi fu fra il finanziere Giovanni Andreossi e l'umanista Blaise de Vinegère, vicino al re Enrico III), da cui, nonostante tutto, era molto difficile derogare. Era d'obbligo essere prudenti, in tutti i sensi. D'altra parte, il sesso era considerato con un'ottica differente dall'attuale, come un atto sostanzialmente fisico.

Per la stessa ragione, era di prammatica, tranne rari casi, condannare apertamente ogni rapporto fisico fra due persone dello stesso sesso. Così Montaigne - nel novero dei rapporti di amicizia che mai potrebbero essere paragonati a quello suo e di Étienne - nel trattare l'amicizia erotica, sostiene che "la licenza greca è giustamente aborrita dai nostri costumi". È probabile, però, che egli in effetti non fosse molto interessato a quel tipo particolare di rapporto, basato sul sesso, che legava l'erastés e l'erómenos, ossia un uomo maturo, sessualmente attivo, ed un giovinetto, sessualmente passivo; a dargli fastidio era soprattutto il fatto che esso fosse legato alla fisicità, alla bellezza esteriore dell'adolescente, cosa solo in parte compensata dalla sete di spiritualità di quest'ultimo nei confronti dell'amico più maturo (non a caso Montaigne guarda con più simpatia proprio al più giovane, "l'amato", preferito anche dagli dei e dagli scrittori classici).


Ma in realtà non è poi così importante sapere se Michel e Étienne abbiano fatto o no sesso. Quello che è fondamentale è che Montaigne esalti - come mai forse era stato prima - l'intenso rapporto che può venirsi a creare fra due uomini maturi: questo è il vero amore, ben più forte e passionale di quello eterosessuale! Nell'affermare la superiorità dell'amicizia maschile - con accenti che si possono trovare in quegli anni, sia pure con minor vigore, anche in Erasmo da Rottterdam e Francis Bacon - inaugura dunque un discorso che troverà il suo apogeo nella poesia di Walt Whitman (che sublimò la sua attrazione per gli uomini nel concetto di adhevisiveness, l'amicizia cameratesca).

In questa altissima concezione dell'amicizia il sesso non è detto però che sia sempre escluso, anzi. Se infatti il sesso è (ufficialmente) assente nell'amicizia con Étienne, dice Michel: "se si potesse stabilire un rapporto libero e volontario, in cui non solo le anime avessero questo godimento completo ma anche i corpi partecipassero a questo legame, in cui l'uomo fosse impegnato tutto intero, è certo che l'amicizia sarebbe più piena e completa". Di certo, esso sembra il giusto, indispensabile completamento di un'amicizia nella quale "le due anime si mescolano e si confondono l'una con l'altra con un connubio così totale da cancellare e non ritrovare più la commessura che le ha unite".


Al di fuori dei Saggi, ogni tanto si coglie qualche accenno omosessuale, magari fra le righe, anche in altre opere di Montaigne, come l'Apologie de Raymond Sebond, il saggio Sur quelques vers de Virgile, o, soprattutto, lo splendido Journal de Voyage, il cui manoscritto fu scoperto e pubblicato solo nel 1774. Montaigne nel 1580/81 intraprese un lungo viaggio in Germania, Svizzera e Italia, ufficialmente alla ricerca di terme e bagni che alleviassero quel mal della pietra (ossia i calcoli), di cui soffriva già da qualche anno. Di fatto, però, il letterato - lui, che si confinò per anni in piena solitudine in una torre - amava viaggiare; per lui il viaggio è la condizione naturale dell'uomo: "Sì, lo confesso, io non vedo nulla, neppure in sogno e col desiderio, su cui possa fermarmi; solo la varietà mi appaga, e il possesso della diversità, se pure qualcosa mi appaga".


In quel viaggio Montaigne fu accompagnato da un gruppo di giovani nobili, in certi casi addirittura adolescenti, e da un misterioso giovane segretario (poi scomparso altrettanto misteriosamente nelle strade di Roma il 15 febbraio del 1581), sul cui rapporto con lo scrittore molto si è scritto, senza arrivare a conclusioni certe. Nei suoi racconti, in particolare nelle pagine che riguardano l'Italia, c'è lo stupore di chi si vede circondato da cose bellissime e, a volte, curiose, come il rito matrimoniale fra uomini consumato nella comunità portoghese di Porta Latina, a Roma. Ma su tutti campeggia l'ammirazione per le opere d'arte, in particolare quelle che rappresentano gli uomini nudi: Antinoo, Adone, Apollo, Ercole, Laocoonte o Mosé. E spesso fa capolino qualche aneddoto che lascia il sospetto di essere stato narrato solo in parte, come quando racconta di avere parlato in latino, facendo delle avance, in Tirolo con un magnifico giovane che poi, con suo disappunto, si è poi rivelato essere una ragazza. Anche per questo, c'è chi ha detto che quello di Montaigne in Italia è stato forse il primo viaggio gay nella civiltà mediterranea.
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