Frugando nei cassetti del nonno: quando gli omosessuali non erano ancora "gay"

La condizione omosessuale italiana dell'Ottocento e del primo Novecento ricostruita dal punto di vista degli omosessuali stessi

Immaginate di essere un povero sessuologo della fine dell'Ottocento, ad esempio Paolo Mantegazza, e di avere appena scritto un libro sulla sessualità, ad esempio Gli amori degli uomini, poniamo nel corrente anno 1886.

A questo punto la vostra pace è finita. Già: d'ora in poi loro, i pederasti, gli uranisti od omosessualisti, che dir si voglia, con l'aggiunta pure delle trìbadi, vi bombarderanno di lettere e memoriali, di argomentazioni storiche, scientifiche e filosofiche per convincervi ad aiutarli nella loro battaglia contro la barbarie religiosa, l'oscurantismo, il pregiudizio.

Beato il medioevo, che poteva permettersi di chiamare "peccato muto" la sodomia! Ecco che al giorno d'oggi, in quest'epoca positivista che vede avvicinarsi il traguardo dell'anno 1900, e che crede nei valori della Ragione e della Scienza, questi individui approfittano della Scienza stessa per reclamare tolleranza e comprensione per il loro bizzarro modo di amare!

Dunque, dicevamo, voi siete Paolo Mantegazza e per questo oggi avete ricevuto una lettera. L'aprite, e fin dalle prime righe la situazione appare molto più disperata del previsto:

Ahi! qual tortura e quale strazio orrendo
avvelenan la povera esistenza
di me che natura già tradiva
nell'utero materno, ché di maschio
mi diè sesso e sembianze mentre invece
ho di femmina core, sentimenti
e desiderii... Oh ciel! quale amarezza
tutto m'invade quando il mio pensiero
si figura le gioie sovrumane
e le dolcezze sante onde infiorata
sarebbe la mia vita se nel mondo
entrato fossi donna!
Il profluvio di versi, anzi versacci, riempie un foglio intero.
Dopodiché, immancabili, arrivano le giustificazioni e la captatio benevolentiae:
"Non sono una creatura abbietta che aspiri al vizio; no! sono un essere buono ed infelice che soffre, soffre immensamente mentre amici e conoscenti lo credono la persona più felice e spensierata che esista sulla crosta terrestre perché senza vizii.

Uomo, amo una persona del mio sesso: l'amo con trasporto, con delirio, con mistica adorazione! Egli lo sa; ma, pur essendo abbastanza buono per compatirmi, non lo è abbastanza per risparmiarmi i suoi frizzi ed i suoi crudeli dileggi. Eppure io non vedo altri al mondo che lui e, per risparmiargli il più lieve dispiacere, sarei pronto a sacrificare non solo la mia vita, ma anche la mia reputazione!..." [1].

D'accordo, ho scherzato: voi non siete Mantegazza ed oggi non siamo nel 1885. Ma il documento che ho citato è autentico (potete leggerlo per intero qui).
E se credete che la storia degli sforzi compiuti dai gay per farsi rispettare inizi nel 1969, vi sbagliate.

Il secolo XIX e gli inizi del XX secolo hanno infatti conosciuto un formicolio di omosessuali che scrivendo, polemizzando, ma soprattutto vivendo, amando e non lasciandosi intimidire dalle minacce della società, hanno lentamente costruito quel mondo sotterraneo, quella vita segreta che noi abbiamo ereditato, e a partire della quale oggi stiamo costruendo uno stile di vita aperto ed orgoglioso di sé.

Non è vero infatti, come si sente spesso ripetere, che "da che è mondo e mondo" gli omosessuali hanno sempre subito le persecuzioni senza reagire, che "è sempre stato così e non ci si può fare proprio nulla".

Al contrario, la storia del nostro passato è una storia di resistenze, trucchi, sotterfugi, e talvolta lotta aperta e coraggiosa per arrivare ad una società in cui l'omosessualità fosse accettata.

Lo dimostrano i documenti privati scritti dagli omosessuali dell'epoca, fortunosamente sopravvissuti alle censure e ai naufragi del tempo, preservati ora su una rivista di psichiatria, ora in un libro di criminologia, ora su un testo di sessuologia, dove queste lettere, memoriali e appunti, sequestrati o ricevuti dalle Autorità, erano stati pubblicati come curiosità o documentazione di una strana e rarissima "malattia" psicofisica.

Vi propongo di riesumarne alcuni assieme, percorrendo un breve itinerario attraverso le tappe della vita di un omosessuale di cent'anni fa: dal "venir fuori" al primo rapporto sessuale, dall'esperienza dell'innamoramento a quella del "battere"...

Questo perché vorrei che non andasse perduta la memoria e la coscienza del lavoro compiuto dai nostri "predecessori" ("antenati", nel nostro caso, temo non lo si possa dire...) in condizioni sociali che oggi a noi apparirebbero disperate.

Dal mio punto di vista queste sono testimonianze di grande speranza, perché ci dicono che nulla di quel che abbiamo ci è stato regalato, ma che tutto è stato conquistato, tutto è costato sudore e sangue, tutto ciò che abbiamo è stato meritato.

Non so cosa si dirà fra cent'anni di noi, della nostra generazione, dei nostri amori e dei nostri sforzi.
Di certo so però che è nostro dovere conoscere e riconoscere il coraggio, la speranza e la forza di quanti muovendosi prima di noi ci hanno spianato la strada e preparato il cammino.

Il "venir fuori" del Conte Cajo

La prima esperienza che da sempre deve affrontare un omosessuale è quella del "venir fuori", accettarsi per quello che è.
Il più bel racconto del secolo scorso su questa fase che io abbia trovato è quello che Johann Ludwig Casper ricevette prima del 1858 da un certo "conte Cajo" (oggi identificato in un conte von Maltzahn), e che pubblicò in un manuale di psichiatria nel 1863 [2].

Von Maltzahn è tedesco, ma più volte ripete che cerca i suoi amori in Italia, Paese più tollerante verso il suo modo di amare della puritana Germania.
È insomma uno di quegli "esiliati del sesso", che pullulano nel Bel Paese a cavallo dei due secoli vivacizzando il panorama gay dell'epoca, e fra cui si contano Andersen, Platen, Byron, Wilde, Norman Douglas, Symonds, "Baron Corvo", von Gloeden, von Pluschow, Fersen, Krupp... [3].

Dapprima il conte Cajo soffre gli stessi tormenti che descrive anche l'anonimo corrispondente di Mantegazza.
Ma un giorno...

Lasciamogli la parola.

"Ho sentito una voce parlarmi nel cuore così forte che pareami udire nella camera alcuno che mi dicesse: Va' sotto i tigli [4].
Di rado, o forse non mai, io non ero stato a quell'interno passeggio; era prima del 1848, ed il passeggio non era così splendidamente illuminato com'è presentemente.
Mi vi portai macchinalmente, ed avevo già dimenticato le ascoltate parole. Dopo qualche tempo mi si accompagnò un signore: egli mi parlò amichevolmente ed insieme giungemmo al giardino zoologico.

Un maraviglioso sentimento di felicità provai allorquando egli, stringendomi fra le braccia, mi impresse sulle guance un bacio appassionato; e finalmente, presomi il membro virile, soddisfece coll'onanismo alle mie voluttuose brame. Ma subito dopo fui preso da una vera disperazione e piansi per vergogna; ma l'amico, rivoltosi, maravigliandosi, a me, disse: Che smorfie sono queste che voi fate? Ciò fanno centinaia di persone.

Non ho mai più in vita mia udito (Dio mel perdoni!) una parola così consolante; fu come io mi destassi a nuova vita, mi parve di essere rinato; ma per otto giorni non ho avuto il coraggio di rifare la passeggiata dei tigli: ogni cosa mi esaltava, ed in questi pochi giorni sono diventato un Apollo" [5].

Per il conte Cajo questo fu l'inizio di un'avventura che gli rivelò in breve l'esistenza di un intero mondo e, perché no?, di una condizione di vita: condizione di minoranza, forse, ma assolutamente degna di essere vissuta:
"Non creda tuttavia che questa passione sia troppo diffusa. Oh no! Ma la benigna natura ci ha ingenerato un certo istinto che ci unisce come in fratellanza; subito c'incontriamo; a ciò basta uno sguardo rapido come una scossa elettrica, e giammai non mi ha ingannato.
Pochi ne conosco in Berlino, alcuni per fama. Su dieci mila potrà tutto al più esserci uno di questi infelici; naturalmente stanno più concentrati a Parigi ed in Napoli.
(...)
Nell'approdare a Barcellona trovai persone, non mai prima da me vedute, le quali in un minuto secondo si sono sentite, come per incantesimo, attratte verso di me, come io verso di loro; ed è ciò un delitto? Noi ci sentimmo felici, beati, e ne ringraziamo Iddio; forse io non li vedrò più, ma sovente penso a loro, ed essi, son certo, altrettanto sovente pensano a me: non ci dimenticheremo giammai.

Anche ora accorro verso il sud per simili corrispondenze (...) e poi nella libera Italia si pensa alquanto più leggermente" [6].

Il trionfo dell'iniziativa individuale

Non sempre l'entrata nel mondo omosessuale avveniva recandosi ex abrupto in un parco dove si "batteva". Altre storie ci descrivono lente seduzioni reciproche, occhiate di desiderio quasi incoscienti, fino allo scoccare della scintilla che dava il via all'incendio.
Così anche la caserma poteva diventare il luogo in cui si scoprivano tendenze fino ad allora represse.

È il caso di un ragazzo italiano ventitreenne che nel 1891 scrisse in francese Le roman d'un inverti né, un'autobiografia "diversa" che fu inviata ad Emile Zola perché ne traesse un romanzo.

Ecco in quale modo l'ufficialetto ventunenne scopre l'amore fra le braccia di un bellissimo sergente venticinquenne dal corpo di un dio, dopo una provvidenziale bevuta generale che aveva messo k.o. i compagni di camerata.

È forse la storia più poetica fra quelle che ho avuto modo di leggere nel corso delle mie ricerche:

"I miei compagni si erano addormentati da parecchio tempo e noi non ci eravamo ancora spogliati. Alla fine mi decisi e, sbarazzatomi della mia uniforme, mi rannicchiai nella mia camicia di batista ed entrai nel mio lettino, sul quale avevo fatto sedere il mio giovane amico, al quale, nella nostra eccitazione e nella ebbrezza causata dal vino e dal chiasso che avevamo appena fatto, prodigai come se scherzassi le più dolci carezze e le parole più lusinghevoli.

Io ero semisdraiato sul cuscino che ci si concedeva di tenere nel nostro letto. Lui era mezzo svestito, e sedendosi sulle mie cosce si chinò su di me.

Io gli parlavo come in stato di rapimento e semiebbrezza, causato dal sonno e dal calore del letto che iniziava a vincermi, quando lui si abbassò completamente su di me, mi circondò con le sue braccia, mi baciò sul viso, passando al tempo stesso le sue mani sotto la mia camicia, stringendo la mia carne a piene mani.

Io mi sentivo morire, e qualcosa come una gioia immensa mi prese improvvisamente.
Ci incollammo per un breve momento l'uno contro l'altro, fronte contro fronte, le guance in fiamme, la mia bocca sulla sua bocca come su un dolce guanciale. Non ero mai stato così felice!

La lampada appoggiata per terra lanciava lampi minacciosi nell'immenso dormitorio, dove nei letti lontani i miei compagni dormivano, e lasciava nella più profonda oscurità l'angolo nel quale noi eravamo così colmi di gioia. Tuttavia ebbi paura che qualcuno ci potesse vedere e, desiderando godere completamente dell'abbandono del mio amico, gli dissi all'orecchio, baciandolo: "Va' a spegnere la lampada, ma ritorna, fa' presto".

Si alzò traballando e andò a bere alla brocca, che era posata a terra, accanto alla lampada. Il dormitorio non fu più rischiarato se non dalla lampada del dormitorio vicino, vale a dire che ci si vedeva un poco al centro della sala, ma che tutto il resto era nelle tenebre più fitte.
Lo vidi nella penombra ritornare al suo letto, che era di fronte al mio. Sentii che si svestiva velocemente e che tornava verso di me trattenendo il respiro.

Quel breve momento mi sembrò un secolo, e quando lo sentii accanto a me fra le lenzuola calde lo abbracciai alla vita, lo palpai e baciai ardentemente, a stento trattenendo grida di gioia e godimento.

Si offrì all'amore molto veemente; in un attimo fummo nudi formando un solo corpo, strettamente avvinghiati. Non avrei mai creduto di poter godere di tanta voluttà.
Le nostre lingue si allacciavano nelle bocche, e tanto strettamente ci abbracciavamo da potere a stento respirare. Con le mani esploravo quel corpo così bello, tanto desiderato, quel viso dolce e virile che era così diverso dal mio.
Infine le nostre voluttà ebbero termine, e, cosa che mi fece soprattutto piacere, raggiunsero il culmine nel medesimo istante.

Rimanemmo a lungo abbracciati, scambiandoci carezze e dolci parole. "Non ho mai goduto tanto con una donna", mi disse. "I loro baci e le loro carezze non sono né così ardenti né così amorosi" [7].

Fu l'inizio di una storia d'amore tenera e passionale, che solo la lontananza e la separazione riuscirono a spezzare quando il più giovane concluse la ferma e tornò a casa, sotto lo sguardo attento della famiglia.

È una storia che il suo autore aveva raccontato con l'idea che fosse degna d'esser resa pubblica, e a questo scopo l'aveva inviata a un romanziere ritenuto fra i più audaci dell'epoca.

Ma neppure Zola ebbe il coraggio di mettervi mano (troppo audace anche per lui, l'amore di due uomini!) e sbolognò lo scartafaccio a un medico, il dott. Laupts (1870-1937), che pubblicò l'autobiografia su una rivista di antropologia criminale, traducendo oltre tutto in latino i brani che a lui parevano più "scabrosi" (incluso quello che ho qui ri-tradotto).

Battuage coi baffi... a manubrio

Naturalmente non tutti riuscivano a trovare (o cercavano) l'anima gemella. In questo caso per essere soddisfatti bastava però ricorrere al, diciamo così, "libero mercato", che per lo più era mercato... all'aperto.
Infatti in un'epoca in cui non erano state ancora inaugurate discoteche con darkroom, ne facevano egregiamente le veci i cespugli dei parchi, o i gabinetti pubblici. Ovviamente, solo di notte.

Conosciamo molti di questi luoghi, soprattutto grazie alle testimonianze morbose di eterosessuali che vollero a tutti i costi vedere tali sentine di perdizione, per poi additarle al pubblico disprezzo in libri e giornali. Con scarsi risultati, com'era prevedibile: ad esempio la maggior parte dei luoghi di battuage di Milano che nel 1879 Paolo Valera [8] si prese la briga di spiare (come la Galleria o il Castello) sono tuttora felicemente... in esercizio.

Uno di questi spiatori folli della domenica fu Alberto Costa che per il suo libro Rettili umani, del 1889, pensò bene di fare un giretto per la Firenze bucaiola.

"Erano circa le nove e mezza quando arrivai. La prima fermata la feci dinanzi alla fortezza [da basso, NdR] dalla parte della dogana; ma non vedendo nulla seguitai fino al ponte della ferrovia.
Su di una delle panchine che prospettano il muraglione della via ferrata, sedevano degli individui, tutti giovani, e, a giudicare dagli abiti, di condizione civile. Discorrevano a voce bassa: ma dalle parole che di tratto in tratto venivano fino a me mi convinsi subito non esser stata la mia gita fatta invano. Era questione di aspettare. (...)

Avevo prima cercato di nascondermi dietro le piante che rasentano il muro della ferrovia: ma poi, attraversando il viale, mi ero portato fino a quelle in faccia alla panchina, e lì rannicchiato vedevo tutto. Era un andare, un venire continuo dalla panchina su cui quegli individui sedevano, al di là dei boschetti che stavano ai piedi del muraglione della fortezza.

Erano quasi le undici quando quei giovani partirono; io mi recai, come al solito, a trovare gli amici al caffè degli artisti, via Guelfa.
Verso la mezzanotte il paziente (passivo, NdR) pederasta, che riconobbi per uno dei frequentatori, entrò rosso come un gambero e tutto dinoccolato" [9].

E a questo punto Costa si lascia andare alle prevedibili esecrazioni e condanne verso quello "svergognato" che invece di passare la notte giocando a rubamazzetto preferiva ben altri svaghi...

Oltre al battuage per così dire "organizzato" c'era poi quello "selvaggio" (modello: "ovunque, comunque, con chiunque!") come quello che descrive Pasquale Penta in un articolo del 1900:

"L'anno scorso, due guardie di città prestando servizio nella Villa Comunale [di Napoli, NdR] si accorsero che un uomo, lacero nei panni e poverissimo d'aspetto, seguiva un giovane ben vestito e dall'aria signorile: credendo che l'uno volesse derubare l'altro, li pedinarono attentamente.

Con loro meraviglia però notarono che, dopo pochi passi, sedutisi entrambi su di un poggiuolo di pietra, dietro un albero, il giovane dall'aspetto signorile sbottonò i pantaloni all'altro e cacciatane l'asta virile, l'andava dimenando con la mano sinistra. Gli agenti allora si avvicinarono e li arrestarono, menandoli in questura.

Quivi ambedue si scusarono del reato, il giovane che noi chiameremo X, asserendo che per sola curiosità aveva toccato col bastoncino le parti genitali dell'altro, Y, quando vide che costui le aveva messe fuori, ed Y stesso assicurando che contro la sua volontà X da sopra i calzoni gli andava prendendo gli organi virili, di che si era con lui lagnato, quando le guardie furono loro sopra e li arrestarono" [10].

Non temete per la sorte di questi due impazientoni: alla fine il tribunale emise un verdetto di assoluzione per... non provata reità.

Baciami, Arturo

Se, come si è appena visto, non mancava un secolo fa chi apprezzasse il sesso nudo e crudo, ciò non vuol dire che la preziosa arte di scriver lettere d'amore, squisito supplizio di Tantalo per amanti che poco o punto possono passare agli atti, fosse trascurata.

Che delizia queste lettere, che regolarmente finivano con l'essere intercettate da chi non doveva nemmeno sospettarne l'esistenza, compromettendo gli autori e finendo pubblicate sulla classica rivista di casi-patologici-con-amori-morbosi.

E pensare che rappresentavano la parte più casta della vita gay dell'epoca! Ma l'Amore, con l'A maiuscola, per i borghesi poteva essere esclusivamente quello eterosessual-matrimoniale: vedere due uomini che si amavano, perdio, faceva l'effetto di una scimmiottatura a dir poco ridicola.

La lettera che segue fu scambiata tra due seminaristi: per questo ha tutto il sapore delle "amicizie particolari", quelle cioè che nutrendosi di infiniti sotterfugi e casti languori esplodono infine nel "trionfo della carne", incubo delle autorità di tutti gli istituti.

"Arturo, figlio e delizia mia.

Sono molto addolorato nel leggere la tua bella lettera e vedere che ti arrecai dispiacere. Se tu mi ami di tutto cuore voglio che tu mel fai sapere il tuo dispiacere che incontrasti in quella lettera, e ti chiedo di tutto cuore perdono se ho mancato in questa volta col dimostrarmi ineducato presso di te mentre tu, Arturo mio, non meriti questo. Ed io adesso altro non farò che piangere per questa insubordinatezza che ho usato, e ti ripeto: ti chiedo scusa e perdono. (...)

Arturo mio, mi parevano mille anni che fosse sonato lo studio per scriverti, e voglio che tu sempre mi scrivi perché molto mi consolo, ed ancorché [anche se, Ndr] le lettere tue fossero di due o tre foglietti, nemmeno mi tedierei di leggerli e risponderti, perché molto mi consolo. Perciò, fratello mio, voglio che mi scrivi sempre ed io ti risponderò subito. (...)

Arturo mio, figlio del mio cuore, il tuo caro Ernesto ti vuole bene, ti ama, e sempre ti cerca, anche quando studia il tuo ritratto vicino al libro per la troppa affezione [affetto, Ndr].

Quando è giovedì voglio che ti affacci sopra la finestra della tua camerata che sporge vicino al luogo della mia camerata almeno per porgerti la mano, e se potrò un bacio ancora darti e sentire uscire ancora dalla tua bocca quella parola, "io ti amo", io ti darò un piccolo dono.

Ed affinché tu te ne accorgi quando io vengo nei luoghi mi metto a suonare l'organetto: allora verrai sopra la finestra, e se ti farò segno di andartene è segno che ci debbono essere compagni con me, ed allora io starò un altro poco e poi verrò di nuovo, pure suonando l'organetto.

Addio Arturo mio, io ti voglio molto molto del bene, ti amo, e mentre io ti abbraccio, ti stringo e ti bacio per non separarmi da te. Il tuo amabile Enrico ti ama, dice sempre, e queste sono le parole che dice e dirà ad Arturo bello" [11].

Traviata triumphans

Non sempre gli epistolari conservatici dai solerti dottori ci rivelano amori corrisposti.

Ecco una gustosissima lettera, scritta nel 1895 da un omosessuale trentunenne, rinchiuso nel manicomio di Roma e "follemente" (ça va sans dire...) innamorato di uno dei suoi medici. È importante questa testimonianza dal manicomio, perché tale istituzione fu spesso, troppo spesso, la tomba di amori e speranze di omosessuali.

Noi italiani siamo un popolo civile, e da noi è dal 1889 che l'omosessualità non è più un reato.
Non è reato quindi proclamare il proprio diritto ad amare in modo diverso, non è un reato amare una persona del proprio sesso. La legge lo permette, per cui non c'è nulla da punire... Da curare, ecco, sì, da curare piuttosto: un bel ricovero in manicomio salvaguarderà la società da qualsiasi accusa...
Incarcerate un omosessuale militante e ne farete un martire; internatelo in manicomio e ne farete un povero pazzo, screditando al tempo stesso lui e le idee che propugna.

È una tattica che non conosce confini: è stata usata contro i dissidenti in Italia o negli Usa (ricordate Ezra Pound?) o in Urss ogni volta che ha fatto comodo...


Ecco dunque la lettera, pubblicata da Clodomiro Bonfigli (1838-1919) nel 1897, e che rivela una "cultura" formata interamente su apocalittici romanzacci d'appendice, o su spaventosi libretti d'opera, sovraccarichi di paroloni inverosimili e di gesti esageraaaati... Se non sospettassimo che nel 1895 Arbasino non fosse ancora nato potremmo pensare addirittura che si tratta di uno dei suoi pastiches...

"Roma, ..... 1895.

Dottore!
L'ardire che mi prendo è grande, ma una forza soprannaturale mi ha accecato, ed a costo della morte vergar io voglio! Le miserie della vita umana sono tante, e lei che è tanto buono abbia compassione delle mie.

Affranto da tante sciagure, oppresso dal dolore, cado in un leggero sonno; e ravvolto dalle gravi tenebre io sogno, ed il sogno è questo... Un Angelo ravvolto in candido velo mi si appressa e mi stringe la mano e dice: Ulisse mi conosci? Io risposi: Chi sei tu? Di biondo crine costui ornato era, roseo il volto angelico, dolci i suoi accenti; era desso, sì, era desso, ma oh?, mio Dio, la man mi trema, sento mancarmi....
Cerco chi soccorrer mi potria, ma è troppo lungi da me; o che terribil momento! Mi porto quella mano al cuore, esso batte forte forte, pare che voglia scoppiarmi! Dottore si scordi per un istante di esser mio superiore, e lasci questa mano che libera agisca.

Mio caro quante volte si pensa a morir, e [che] la morte ci tronchi l'esistenza e con essa le sventure! Questo mentre la cerco e non la trovo! Intanto sogno ancora, quell'angelo me lo strinsi al seno, lo baciai in viso poi scomparve e io mi svegliai: vana illusione! Chi era l'angiolo ammaliatore? Ah! che... son per dire... La favella mi si opprime, la favella mi si offusca (coraggio). È lei Dottore l'Angiolo mio! (...)

Le angeliche forme di X. Y. si eclissano dinanzi alle sue di cherubino! Ma sogno forse io? No, son desto! E più non so reggere innanzi a sì ardua impresa!- È follia.- Lei non potrà amarmi, del suo cuore è già sovrana chissà qual dolce donzella, ma se per caso ce ne avesse un posticino vacante, deh per pietà lo riservi per me, saprò amarlo e le darò prova dell'amor mio!

Cosa mai io dico? (Eppur si muore!) Ah! Non avrò giammai sì tal bene, ben lo comprendo, ma voglio avere la soddisfazione che sappia che io l'amo, io l'adoro finché Dio sarà Dio! (...)

Addio e quest'addio sia seguito da mille baci che il povero Ulisse porgere le vorria sulle sue vermiglie labbra!" [12].

La via mediterranea al frocialismo

La via mediterranea al frocialismo


L'esame della vita omosessuale del secolo scorso nel nostro Paese non sarebbe completo se non tenesse conto di quella peculiare figura umana che è il ricchione del Sud Italia.

Mentre nell'Italia del Nord infatti si andava affermando nel corso dell'Ottocento uno stile di vita in qualche modo diverso da quello tradizionale dell'omosessualità mediterranea, al Sud il ruolo dell'"invertito" passivo giungeva ancora ad una ritualizzazione, sulla falsariga dei valori dominanti, così spinta da rendere possibile la completa visibilità, senza che la società dei "normali" si sentisse minacciata.

Foto acquarellata di un certo Nail Burgess, datata 1880. [Collezione G. B. Brambilla].

Così Abele de Blasio descrisse nel 1896 come i ricchioni arrivassero persino a celebrare "'o spusarizio masculino".

"Giunti che sono i ricchioni alla prima alba della pubertà, sentono il bisogno di essere... goduti; e, trovato che hanno l'ommo 'e mmerda (pederasta attivo), l'amano, come ben si espresse il Mantegazza, con una passione vera, ardente, che ha tutte le esigenze, tutte le gelosie di un amor vero.
Il vasetto, tutto contento dell'acquisto fatto, colma di carezze l'amante, e poi cerca di raggruzzolare quel tanto che è indispensabile per preparare l'ara dove spontaneamente va a offrirsi in... olocausto.

Il luogo del sacrifizio è quasi sempre qualche lurida locanda, dove in giorno e ora stabilita si fa trovare l'amante, qualche suonatore di organetto e chitarra e una schiera di ricchioni, che fan corona alla timida... "fanciulla". Dopo un balletto erotico, il più provetto della "materia" augura alla felice coppia la buona notte; ma la sposina, prima di lasciar partire gl'invitati, distribuisce loro i tradizionali tarallucci e vino.
Il giorno dopo, 'o ricchione anziano, accompagnato da un caffettiere ambulante, porta agli sposi due piccole di latte e caffè e poi fa nel talamo un'accurata visita per accertarsi se il sacrificio fu compiuto in tutta regola.

Le nostre femminielle di giorno si occupano di faccende domestiche, appunto come fanno le donne, e poi in ora stabilita si fanno alla finestra e aspettano i loro amanti. Il prezzo che ricavano dal loro ignobile mestiere lo versano ai loro mantenuti. Noto è il fatto del femminiello Carlo C., il quale anche per gelosia si tolse la vita col fosforo, facendosi scrivere per l'amante Francesco T. la seguente lettera:

"Caro Ciccillo,
io mi avveleno colle capuzzelle di fiammiferi perché tu ammogliandoti non potrai più abbracciare chi tanto ha sofferto per te, arrivando a darti finanche il suo onore.
Del resto io ti perdono dell'offesa fattami perché sei cattivo come tutti gli altri uomini. In qualche momento della tua vita e delle tue gioie arricordati del tuo aff. amante Carluccio" [13].

Povero Carluccio, abbandonato dopo aver sacrificato amore e onore per chi l'aveva tradito - e, quel che è peggio, con una femmina, per di più!

Gli uomini, che mascalzoni...

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