Dante e Brunetto Latini

27 ottobre 2004, Perché non possiamo non dirci. Letteratura, omosessualità, mondo, Milano, Feltrinelli, 2004

IN CUI, LEGGENDO DANTE, SI MOSTRA CHE A VOLTE L’AMBIGUITÀ È UN’OTTIMA COSA; E CHE ANCHE CHI RICORDA IL PASSATO SENZA RIPENSARLO È CONDANNATO A RIVIVERLO.


Vorrei riprendere un’idea che hai tirato in ballo già prima, e poi di nuovo un momento fa. L’idea che la letteratura non offre risposte ma domande, e in particolare “domande etiche”. Cosa intendi, esattamente?

I grandi libri durano a lungo. Non perché diano delle risposte definitive, ma perché continuo a porre domande rilevanti: parlo di risposte e domande “etiche” perché il “come siamo” entra in gioco in modo non puramente descrittivo – serve a interrogarci sul “come dovremmo essere”. E un’opera letteraria rimane valida proprio nella misura in cui è coerente e problematica, non in quanto sia congruente con i principi etici del lettore odierno: cosa del resto piuttosto rara.


Puoi farmi un esempio?

Sì, c’è un esempio che mi piacerebbe esaminare in dettaglio. Però…


Però?

Ti avverto: quando mi avvicino a un’opera di poesia, ci entro dentro gambe e braccia. E il mio discorso rischia di risultare un po’ difficile. Da addetti ai lavori, diciamo.


Va bene: tu cerca di spiegarti meglio che puoi. Che esempio avevi in mente?

Il canto XV dell’Inferno. Lo conosci?


Sì, l’ho riletto di recente: l’incontro con Brunetto Latini.

Esatto. Dante, come sai, mostra reverenza per Brunetto, ma lo condanna in quanto sodomita: un giudizio che, in sé e per sè, oggi non possiamo condividere.


La Commedia trabocca di giudizi che non possiamo condividere.

Ma la soluzione non può consistere nella ricerca di scusanti per dimostrare che Dante era “giusto” e “aperto” in relazione ai suoi tempi.

Se anche così fosse, il valore della sua opera poetica non consisterebbe comunque in questa omofobia “morbida”. La poesia sta altrove, sta in un certo modo di rappresentare la cosa; ho parlato di coerenza e qualità problematica, potrei aggiungere lucidità e complessità. Da questo “modo” i lettori di Dante come di Céline potranno poi trarre giudizi morali, che si spera siano giusti e aperti.


Cosa intendi per “qualità problematica”?

Per fare un altro esempio, notissimo, nel canto V – quello di Paolo e Francesca – l’adulterio subisce sì una censura morale definitiva, ma prima c’è spazio per la simpatia, per il dubbio. Il fatto è che l’adulterio godeva del favore di una componente importante della cultura dell’epoca: la tradizione cortese, a cui si era richiamato Dante stesso nella sua esperienza stilnovista. Così l’amore cortese diventava un elemento problematico, a livello sia personale sia collettivo. E la critica ha stabilito da tempo che la famosa scena del bacio durante la lettura elabora proprio questo problema, cioè lo articola in modo che se ne colgano due aspetti: la soluzione etica di principio che Dante predilige, e la drammaticità del problema stesso – una drammaticità che in qualche misura lascia il dilemma sempre aperto. L’adulterio viene condannato, ma il poeta è come travolto da questa condanna. A fine canto, sviene.


Senti, però Inferno XV condanna la sodomia… Un momento: ora che ci penso, la sodomia non è necessariamente omosessuale.

Questo è un problema intricato. Mettiamolo da parte: in questo canto Dante parla solo di omosessuali.


Dicevo, Inferno XV condanna la sodomia senza esitare. Non c’è nulla di “problematico”.

In apparenza hai ragione: pur mostrando simpatia per Brunetto, Dante si schiera nettamente con la tradizione antisodomitica cristiana. Mentre nell’incontro con Francesca viene apertamente messo in gioco il problema dell’adulterio, in quello con Brunetto sembra che la sodomia venga semplicemente messa da parte: una colpa attenuata dall’affetto per Brunetto e dai suoi meriti personali, ma comunque una colpa assodata, indiscutibile, e da non discutere. Però Dante non è solo un omofobo: l’abbiamo già detto, è un grande omofobo. E io vorrei provare a mostrarti che questa problematicità invece c’è.


* * *


Ti ascolto.

Occorre osservare il modo in cui la condanna dei sodomiti viene effettivamente messa in scena nel canto XV. Dante struttura l’episodio attorno a una serie di elementi che si prestano a una doppia lettura. Considera in primo luogo l’estrema discrezione dei due interlocutori.


Discrezione? Vengono indicati con chiarezza parecchi dannati! Oltre a Brunetto, Prisciano, Andrea de’ Mozzi, Francesco d’Accorso, e altri ancora nel canto successivo…

Sono tutti morti, ovviamente; e mentre in molti altri canti Dante trova il modo di accusare anche dei viventi, qui evita di farlo. Ma soprattutto conta il modo di esprimersi. Già nel canto precedente i sodomiti erano presentati come la schiera più numerosa e più silenziosa. Qui, nel XV, la riservatezza diventa palpabile, ovattata. La sodomia viene designata per ellissi; poi negli ultimi versi i nomi vengono forniti tra continue cautele e dinieghi – meglio tacere, siamo in troppi, non c’è tempo, viene gente, te lo direi volentieri ma. Lo stesso Brunetto non ci viene mostrato come sodomita; capiamo che lo è, ma il canto si impegna a presentarlo soprattutto come maestro esemplare e come oracolo dell’esilio.


Per quanto riguarda Brunetto, sarebbe strano che Dante raccontasse in dettaglio le sue colpe…

Certo, è strano parlare di omosessualità: l’omofobia è proprio questa “stranezza”… Ma ci sono tanti modi di raccontare un dannato nel contesto della sua colpa. Vedi, i dannati dell’Inferno in molti casi sono portatori di qualcosa che ricorda ciò che Aristotele nella Poetica chiamava hamartìa: un “errore”, che però non nasce da “cattiveria o perfidia”…


Ti interrompo: c’è una grossa differenza. In Dante questo “errore” è una vera e propria colpa, un peccato, qualcosa che sarebbe stato possibile non commettere.

È vero: i dannati sono dannati perché hanno usato male la propria libertà. Tuttavia la loro colpa è parte integrante della loro persona, parte di qualcosa che determina anche i loro comportamenti positivi. Per Francesca l’eros è espressione massima dell’io, ma anche trappola; così pure la sete di conoscenza per Ulisse. Per Brunetto, a ricoprire lo stesso ruolo ambivalente è l’attenzione ai giovani, che può declinarsi sia come vocazione pedagogica, sia come passione pederastica (in senso tecnico). Il collegamento tra questi due aspetti, come vedi, è strettissimo: tanto quanto quello tra le due “facce” di Ulisse o di Francesca. Eppure Dante si incunea tra le due opzioni e separa nettamente la seconda, mai menzionata, dalla prima, celebrata e sublimata.


Insomma, non era così scontato che Dante non tematizzasse la colpa di Brunetto.

Esatto. È un silenzio deliberato. Ora, ti rendi conto della grande ambiguità di questa variegata strategia di silenzi. Può venire letta in chiave omofoba, come una condanna del peccato innominabile; ma anche in chiave diciamo omofila, indulgente, come un gesto protettivo da parte di Dante verso i sodomiti (che, rispetto ad altri dannati, ricevono un trattamento di favore), e soprattutto verso il suo maestro Brunetto. Entrambe le letture sono legittime.


E probabilmente sono entrambe vere. Dove vuoi arrivare?

Aspetta, vorrei prima raccogliere alcuni altri esempi di questo spazio di indecidibilità. Abbiamo già parlato della discrezione di Dante in questo canto. È interessante, però, che egli – come osservavi prima – non scelga di portare la discrezione fino in fondo. Fa invece una serie di outing, anche se solo di persone già morte. (Non coming out, stavolta: veri e propri outing.) Rivela pubblicamente – forse per primo: non abbiamo attestazioni anteriori – la “colpa” di Brunetto, e fa altrettanto con diversi altri personaggi morti da pochissimi anni.


Si comporta così con tutte le categorie di dannati.

Ma nel caso dei sodomiti le conseguenze sono più gravose. Per una dinamica culturale antichissima, l’outing è un primo passo entro la sfera contagiosa del tabù. Divulgare l’omosessualità di un individuo ben preciso è un’azione concretamente pericolosa: significa esporsi al sospetto di conoscere la tabe “troppo da vicino”, quindi di essersene macchiato – sospetto che è espresso già da uno dei primi commentatori del canto XV, l’Anonimo fiorentino. Anche in questo caso, quindi, c’è una voluta ambiguità: la condanna stessa assume l’aspetto della complicità. Come nel detto inglese it takes one to know one, grosso modo: “se uno sa riconoscerli, vuol dire che è uno di quelli”.


Questo è solo uno stereotipo.

Certo. Più precisamente, è ciò che il sociologo Robert King Merton chiamava una self–fulfilling prophecy, una profezia (un pre–giudizio) che nel diffondersi produce spesso i fatti che la confermano. Quindi non è “solo uno stereotipo”: è uno stereotipo attivissimo, e sul piano testuale ha l’effetto di ammorbidire l’opposizione tra peccatore e incolpevole, come se i rispettivi comportamenti fossero in fondo straordinariamente simili, sovrapponibili. A questo contribuisce, inoltre, l’atmosfera stessa del canto.


È molto morbida…

Di solito viene definita “purgatoriale”: una penombra discreta e sfumata; apparizioni indistinte che scrutano “come suol da sera / guardare uno altro sotto nuova luna”; pochi accenni alla pena; il Flegetonte descritto come un “ruscello”. Questa ambientazione sottolinea la dimestichezza tra Dante e Brunetto, il tono patetico e pudico del loro ritrovarsi. Al tempo stesso, un simile regime di scarsa visibilità si adatta benissimo (come ha scritto Mario Mieli) a un luogo di battuage, di incontro omosessuale, come quelli descritti da Machiavelli nelle sue lettere. Ancora una volta, si sovrappongono significati opposti.


Mi sembra chiaro che Dante non voleva rappresentare un incontro gay!

La questione delle intenzioni di Dante è ardua, ci tornerò più avanti ma senza troppe speranze di poterla risolvere. Ovviamente ciò che più conta sono le intenzioni del testo (e quando dico, per semplicità, “Dante sceglie di rappresentare questo o quell’altro”, è chiaro che intendo “il testo sceglie”). Cosa intende fare il testo di Inferno XV? Non vuole certo rappresentare un incontro gay (su questo sono e resterò d’accordo con te), ma di fatto lo fa, o meglio fa anche questo e così continua a fornirci spunti per una doppia lettura, per l’intrecciarsi, il co–implicarsi di letture contrapposte. E gli indizi di questa strategia non finiscono qui.


Puoi limitarti a sintetizzarli?

Bene, tralascerò qualche altra osservazione, per esempio sulla rappresentazione di tre sodomiti fiorentini come “campioni nudi e unti” dalle “gambe… isnelle”: anche perché, a rigore, sta nel canto successivo. Vengo subito agli ultimi tre elementi che, in questo canto, risultano deliberatamente ambivalenti.

Primo: dovendo incontrare un sodomita, Dante va a scegliere proprio uno dei suoi maestri. Nel medioevo un classico luogo di relazione omosessuale è la scuola: Giovanni Reggio, per esempio, osserva che “paedagogus era quasi sinonimo di ‘sodomita’”. Quando Dante celebra Brunetto come maestro, evoca necessariamente il paradosso di una scuola che è luogo di formazione e di seduzione.

Secondo: Brunetto rivela (ma è un altro motivo ricorrente della tradizione omofoba medioevale) che i sodomiti della sua schiera, che lo circondano numerosissimi, “tutti fur cherci / e litterati grandi e di gran fama”. Proprio come loro due.

Infine: la coreografia del canto torna continuamente su immagini di reciprocità e inversione. I due si muovono in parallelo, si toccano, praticano un rituale gioco delle parti (Dante è un po’ maestro un po’ allievo, e così pure Brunetto), fino a un curioso scambio di cortesie per decidere chi sta sopra e chi sotto (l’argine del Flegetonte). Capisci ora che la confluenza di elementi opposti diventa assordante, o, se preferisci, altamente problematica.


* * *


“Chi sta sopra e chi sotto…” Ho capito dove vai a parare. Vuoi dire che Dante era sodomita.

Stavo per risponderti che non mi interessa molto se Dante abbia mai avuto esperienze omosessuali; ma non è vero. Ovviamente sarebbe molto interessante saperlo, come sarebbe interessante ritrovare un’epistola in cui Dante parla del senso di Inferno XV. Sarebbero entrambi materiali che porterebbero a una revisione della mia interpretazione. Ma questi materiali non ci sono, quindi mi baso solo sugli indizi forniti dal testo, che non sono pochi.


Però non mi hai risposto.

Non sono uno storico, ma posso dirti che la pratica sessuale del basso Medioevo era diversissima dalla nostra. Che io sappia, i primi dati di cui disponiamo riguardo a Firenze sono del tardo Quattrocento: Michael Rocke ha mostrato che a quell’epoca i due terzi dei maschi quarantenni della città erano stati arrestati almeno una volta per sodomia; e altri evidentemente l’avevano praticata ma erano sfuggiti all’arresto.

Forse nel secolo precedente la situazione era in parte diversa, ma di certo gli incontri omosessuali – almeno occasionali – erano davvero molto diffusi. Quindi, per quanto riguarda Dante, è abbastanza probabile che qualche esperienza ci sia stata. Un critico e scrittore che stimo molto, Emanuele Trevi, ne è addirittura certo: sostiene che Dante è troppo interessato all’omosessualità per non esservi stato coinvolto in prima persona.


Ma Dante è davvero tanto preso da questo tema? Più dei suoi contemporanei, voglio dire? Pensavo che i sodomiti comparissero in tutti gli “Inferni” letterari dell’epoca, e in molti altri testi.

È che compaiono in altri “Inferni” – più avanti te ne dirò uno – ma in genere in modo assai meno approfondito. Voglio dire che Dante investe una quantità inusuale di energia poetica nel canto XV. E non solo lì. Più avanti colloca i sodomiti anche in un passaggio cruciale del Purgatorio: stanno nel fuoco insieme agli altri lussuriosi, e il poeta deve immergersi proprio in quelle fiamme. È una purgazione generica prima di entrare in Paradiso? O Dante è colpevole di lussuria? E di quale lussuria? E perché diciassette canti prima si paragona a Ganimede rapito da Zeus–aquila – uno dei più noti miti gay, già nel Medioevo?

Non sono domande retoriche da parte mia: non ho la risposta, e penso che non sia una risposta semplice. Per questo dico che, anche se Inferno XV è certamente lo snodo principale della questione dell’omosessualità nella Commedia, per avere un quadro completo occorrerebbe analizzare tutti questi altri punti. Il che significa anche che Trevi non ha torto a pensare che Dante si giocasse molto su questa carta.


Ma allora perché ti mantieni cauto riguardo alla possibilità che Dante abbia avuto esperienze gay?

Quella di Trevi mi sembra una variante di it takes one to know one. E soprattutto, il tema stesso aveva una centralità antropologica molto forte, percepibile anche da un “non coinvolto” – soprattutto se grande poeta. È proprio questa centralità che mi interessa, perché spiega le apparenti contraddizioni del testo, le “ambiguità” che ti ho enumerato.


Allora torniamo alla tua analisi. In cosa consiste la centralità di cui parli?

Vedi, Dante e Brunetto vengono dallo stesso ambiente di intellettuali comunali. Dalla prima riga in cui Brunetto viene chiamato “ser”, fino alle ultime in cui raccomanda a Dante di curare la fortuna di quello che reputa il suo capolavoro, il Tresor, tutto mostra che – nonostante le differenze che li separano – condividono determinate forme di comunicazione e relazione, certe gerarchie reali e formali, un dato contesto di impegno culturale e politico. Li lega un sistema di consuetudini, sentimenti e valori ben precisi in cui trovano posto l’affetto reciproco, la devozione pedagogica, l’amore per la letteratura, la passione civile, la condanna del “peccato contro natura”, e l’indulgenza di fatto verso la sodomia propria e altrui.


Quest’ultimo però è un elemento marginale del contesto che descrivi.

Sì e no. Entro una data cultura, gli elementi tabù corrispondono al jolly delle carte o alla tesserina dello scarabeo nel gioco omonimo: un elemento estraneo all’alfabeto e alla sintassi del gioco, un accessorio privo di significato, un buco – e sappiamo che il gay è rappresentato proprio come un “buco”, un buco nero nel cosmo naturale e sociale.

Eppure questo iato (che somiglia a ciò che nella psicoanalisi lacaniana è detto il “significante capo”, Master–Signifier, o anche al “punto cieco” nella mente dello scrittore, di cui abbiamo parlato tempo fa) è necessario a chiudere il cerchio di una parola o di una scala: è l’unico pezzo che completa il senso del gioco e permette di giocare. “Ciò che ‘tiene insieme’ più profondamente una comunità,” scrive Slavoj Zizek, “non è tanto l’identificazione con una legge che regoli il ‘normale’ circuito quotidiano della comunità, ma piuttosto l’identificazione con una specifica forma di trasgressione della legge, di sospensione della legge (in termini psicoanalitici, con una specifica forma di godimento).”

È relativamente facile aderire al patto esplicito della comunità; ma si fa davvero parte di essa quando se ne accettano e sostengono in modo più o meno consapevole anche le incoerenze, i non detti, gli strappi alla regola.

Per esempio, in quell’attività virile per definizione che è lo sport, e in particolare nel calcio (rarissimi tra gli sportivi apertamente gay i calciatori), il giocatore veramente virile non è quello che evita scrupolosamente i contatti fisici ambigui (questo anzi può sembrare un atteggiamento da “signorino”, suscettibile di mobbing): è quello che cede all’emozione del gol e carezza, abbraccia, bacia i compagni. Simili spazi di eccezione esistono anche nella Firenze duecentesca. Uno, credo, è l’”usura”, nel senso che la parola aveva all’epoca (mero prestito contro interesse): è condannata dalla Chiesa, e tuttavia resta diffusissima perché imprescindibile per l’economia comunale. Un altro di questi spazi è certamente la sodomia.


In sostanza, stai dicendo che le forme di trasgressione tollerata sono essenziali perché esprimono, dietro l’ideologia ufficiale della comunità, la sua ideologia segreta.

Esatto. Anche se questa rimane una caratterizzazione formale, che andrebbe completata (ma non starò a farlo qui) entrando nel merito dell’”ideologia segreta” – una forma di patriarcato, direi. Vale la pena di ricordarti che in tutto questo nostro discorso su Inferno XV restiamo sempre nell’ambito dell’omosessualità e omosocialità maschile, del suo particolare incrocio di imposizione e sottomissione. Quella femminile rimane ancora una volta fuori del quadro, del tutto depotenziata.


* * *


Mi sembra che tu ti stia riallacciando a un tema che hai toccato spesso: il compenetrarsi di omosessualità e eterosessualità.

Questa compenetrazione avviene sempre; e ormai ti sarà chiaro che con questo non voglio dire che “l’omosessualità non esiste”. Esiste eccome, ma esiste entro una data cultura omosociale, che è anche solidamente eterosessuale. Per questo l’omosessualità è da una parte prevista e duramente sanzionata, dall’altra largamente praticata, tollerata, e taciuta.


Tu però dici qualcosa di più. Affermi che nel mondo di Dante questa fusione era particolarmente intima.

Sarebbe lungo imbastire un confronto tra la nostra realtà e la sua. Non è detto che siano troppo diverse. Ma certamente la sensazione (ricordi i dati sugli arresti di sodomiti?) è che in quella realtà le valenze omosessuali e quelle omofobe si intreccino in modo spesso inestricabile; non solo sono complementari, ma tendono addirittura a sovrapporsi. Il canto XV non ci dice se Dante abbia avuto esperienze gay, ma ci dice qualcosa di più importante: ci mostra che Dante apparteneva a una cultura, per così dire, consociativa (archeologicamente italiana, diciamo!) per quanto riguarda la sessualità maschile. La poesia dantesca rende percepibile proprio questa dinamica. È a questo che mirava il mio discorso sulle ambivalenze di Inferno XV. Il riserbo, per esempio – immediato e istintivo sia in Dante che nel sodomita Brunetto – è (come giustamente dicevi) una forma di censura e insieme di tutela, un gesto repressivo ma anche complice. La penombra del girone è quella del pathos nostalgico, ma anche della passione erotica. E colui che identifica e condanna i dannati si mostra sempre più partecipe: è un chierico come tutti gli altri, è stato allievo di Brunetto, lo compatisce, lo ama, sente di dover scendere sulla sabbia infuocata con lui…


La tua è un’analisi molto maliziosa.

Assolutamente no. Ripeto: non sto parlando della sessualità di Dante. E aggiungo che non metto nemmeno in discussione il significato letterale del testo, che è quello classico, riconosciuto: l’espressione di un’affinità e di un affetto che rientrano nella Norma. Solo che questa Norma si rivela un po’ più stratificata di quanto sembrava.


Ma – riassumendo – perché Dante ha cercato e costruito la situazione più scabrosa, più ambigua che si potesse immaginare?

Per non essere ambiguo. Questo non è un testo ambiguo, in realtà. È un testo che mostra l’ambiguità. Certo, è un testo francamente omofobo, come buona parte della nostra tradizione culturale (senza che ciò ne diminuisca in alcun modo il valore artistico); ma se fosse solo omofobo sarebbe davvero banale; e se fosse invece la resa in codice di un incontro gay, sarebbe altrettanto banale. A volte per essere chiari occorre non stare né di qua né di là. Inferno XV cerca di fare qualcosa che per noi può essere molto difficile: mostrare la sessualità non come terreno ultimo, puro dato “naturale”, ma come problema etico. Omosessualità e omofobia come due realtà non solo coesistenti ma intrecciate, co–implicate, due facce di un contesto omosociale che deve continuamente affermare ciò che nega e negare ciò che afferma.


Pensi a una strategia cosciente di Dante?

Io parlerei solo della ricettività di un testo poetico eccezionalmente sensibile. Certo Dante è affascinato, non senza repulsione, dai circoli viziosi: vedi i suoi incontri con Pier delle Vigne, Guido da Montefeltro, l’aquila del cielo di Giove e altri ancora. Abbiamo già parlato di come funziona la mente di un poeta – c’è dentro un sacco di lavoro di riflessione, parecchia fortuna, un sesto senso per le linee di faglia dell’etica, e una passione per le domande senza risposta. “Uno scrittore che tiene un diario lo usa per registrare ciò che sa; nelle poesie e nei racconti mette quello che non sa”, ha scritto il poeta polacco Adam Zagajewski…


Senti, ora capisco la tua analisi e mi sembra anche sensata. Ma la trovo troppo centrata sugli schematismi ideologici. Dov’è l’attenzione all’umano, dov’è la poesia?

Cos’è la poesia? Io ti ho descritto il canto come una serie di valenze antitetiche accoppiate, ma questa struttura si riempie poi di sfumature, raccordi, echi, perché Dante ci racconta davvero l’esperienza reale di chi vive nella contraddizione. Pensa solo a tutti i livelli di intimità, fiducia, nostalgia, ma anche ironia feroce e rivalsa edipica, che si manifestano in quella tenerissima gaffe: “M’insegnavate come l’uom s’etterna”, detto al proprio maestro omosessuale dannato! Oppure pensa alla corporeità delle metafore! Dante sceglie sempre di vivere i conflitti sul proprio corpo. Oggi sarebbe un body artist. Ti ho già ricordato che in Inferno V, per annunciare la crisi della cultura cortese, non pronuncia una terzina: sviene. E anche in questo canto sente il bisogno di proporsi come attore fisico di un teatro morale. C’è un’immagine bellissima, sviluppata con ampiezza all’inizio del canto, che sintetizza questa “posizione di scrittura”: il poeta che cammina sopra il ciglione dell’argine del Flegetonte. Dante si trova esattamente qui, in questo luogo liminale, da danza butoh, protetto dalle fiamme ma anche esposto. Lo paragona alle dighe venete e fiamminghe, ma la parola che lui usa è “schermo”, con tutte le associazioni che puoi immaginare.


La “donna dello schermo” della Vita Nuova

Una paratia che ostacola e facilita l’eros.


Ma non è troppo poco, pensare che tutto il canto serva solamente a replicare e dissezionare un paradosso?

La mia analisi non esaurisce certo il contenuto del canto. Te l’ho già detto, questo non è un modo di procedere che mi interessa; e tutte le letture consuete in cui questi versi sono visti come riflessione sul rapporto pedagogico, sull’esilio, eccetera, restano valide – vorrei solo arricchirle di una dimensione che mi sembra fondamentale. Comunque, il “paradosso” di cui parli sta nelle cose. Il grande realismo dantesco lo rende visibile, gli dà vita, lo narra. Inferno XV leviga il piombo del pregiudizio omofobo fino a fargli riflettere tutta l’assurdità, tutto l’equilibrismo da “Il dottor Livingstone, suppongo?”, tutta la stralunatezza dello sguardo che si riconosce in esso (anche per questo il canto dei sodomiti ci coinvolge tutti: chi può dire di non riconoscersi in alcun pregiudizio?). Ricorda in effetti certe scene lunari di Kafka, come quella che chiude Il processo. E la verità, kafkiana, è che qui vengono puniti proprio i meriti del vecchio poeta sodomita: la sua perfetta adesione alla Norma.


Non sarebbe stato più semplice denunciare l’omofobia?

Ma Dante era omofobo. Ognuno fa arte con quello che ha, cercando di fare dei suoi limiti (amati o odiati che siano) una forma, un progetto. E poi le migliori opere letterarie sull’omofobia non sono quelle che si limitano a denunciarla – sarebbe un moralismo letterariamente imperdonabile – ma quelle che la eseguono nel lettore (come una prima volta nell’autore), con tale chiarezza da permettergli di riconoscerla prima di tutto in sé stesso. E allora, fuori dal libro, giudicarla.


Ora sei troppo ottimista, mi pare.

Non dico che chi scrive sia consapevole di questo processo. E nemmeno che esso scatti sempre e comunque. La letteratura è umana – quindi obliqua, quasi sempre poco pulita, e come spaventata dalle verità che può portare alla luce. Ma a volte agisce: solo allora sai di avere davanti un libro vero, con una sua profonda, oggettiva onestà.


* * *


Senti, non ti sembra riduttivo spiegare il personaggio di Brunetto solo in base alla sua sodomia? Dante forse esagera nell’accantonarla, ma tu la poni al centro di tutto.

Chiariamoci: Dante non “esagera”. In un contesto omosociale tradizionale un ottimo modo per dire la sodomia di Brunetto in tutta la sua complessità – in tutto il castello di effetti e riflessi che essa produce – passa proprio attraverso il non dirla. Sapevi che probabilmente la parola “omertà” è collegata allo spagnolo hombredad, “virilità”? Detto questo, io credo che l’omosessualità determini una persona in modo forte – intricato, oscuro, personale, però forte; e che in questo senso Brunetto sia un personaggio più compatto di quanto si sia spesso pensato. Quando c’è lui in scena, la sua “colpa” non è mai troppo lontana. Non è detta direttamente, ma è detta.


Se dicevi tu stesso che Dante accantona la sodomia di Brunetto, che lo celebra come padre spirituale…

È vero, attribuisce a Brunetto una “cara e buona imagine paterna”; e il vecchio poeta da parte sua chiama Dante “figliuol”, addirittura “figliuol mio”. C’è un’insistenza quasi enfatica su questa paternità metaforica. Però poi, facci caso: le più icastiche immagini di fecondità si riferiscono tutte al discepolo. Dante è “pianta” nata dalla “sementa santa” dei Romani, è “dolce fico” che deve “fruttare”.


Brunetto però rivendica almeno la paternità della propria opera letteraria.

Ma anche il ricordo di quell’opera lo affida a Dante: “Sieti raccomandato il mio Tesoro, / nel qual io vivo ancora.” Il testo insomma fa di tutto per ricordarci che in realtà i ruoli sono invertiti: Brunetto per noi vive soprattutto grazie alla Commedia (e credo che Dante lo sapesse bene). La sua prolificità è debole e vicaria. E nel girone dei sodomiti questa non può non suonare come un’allusione al Brunetto sodomita, allo stereotipo dell’omosessuale infecondo, che brucia la sua forza generativa in un gesto effimero; che non può essere padre ma tutt’al più mentore omoerotico, erastes (come dicevano i greci), daddy (come dicono gli americani). L’ironia è che nella realtà Brunetto aveva addirittura tre figli. Ma questo te lo dico solo a titolo di curiosità; e magari anche come dato aggiuntivo sulla compenetrazione tra omosessualità e eterosessualità nel Duecento…


Casi del genere si verificano anche oggi…

E neanche tanto di rado. A noi comunque interessa il Brunetto del canto XV, un uomo che non nomina affatto i suoi figli, e soprattutto un uomo a cui certamente manca qualcosa. È qui che si scorge l’ombra della sua condizione: con tutte le sue virtù di pedagogo, c’è in lui (è difficile non sentirlo) qualcosa di triste e di sterile.


Si capisce: è un dannato.

Già: e sappiamo perché…


Non è solo questo; Brunetto era davvero meno “fecondo” di Dante!

Certamente sì. Però Dante ci dà una spiegazione molto precisa, precisa perché metaforica, di questa (diciamo) carenza di ispirazione, o impotenza verbale. Quando il maestro gli profetizza l’esilio, l’allievo con affettuosa perfidia rimarca che si tratta di parole oscure, da integrare con “altro testo”: la voce di Beatrice. Lei sola spiegherà, e insieme compirà, il destino di Dante come uomo e come poeta. Ora, Beatrice è un simbolo molto ricco, inserito in una catena di altre figure simboliche ideali (dalle Muse a Maria), e sarebbe lungo analizzare tutto ciò; ma in questo canto la poesia dantesca ci fa notare una di quelle verità ovvie ma non certo banali che la poesia sa quando manifestare: questa figura della grazia feconda viene chiamata semplicemente “donna”. Nella Commedia Dante, prima di incontrare Beatrice nell’Eden, la menziona spesso, ma in pochissimi casi la chiama “donna”: prima qui, poi una seconda volta incontrando Catone, per fare appello al suo amore per la moglie Marzia; infine di fronte ai lussuriosi e sodomiti del Purgatorio. Quindi sempre in contesti legati alla relazione coniugale o sessuale. Evocare Beatrice come donna è chiaramente un gesto molto calcolato. In Inferno XV esso suggerisce che Brunetto è tagliato fuori, simbolicamente, da una delle maggiori ipostasi presenti nella cultura occidentale: la Donna–Musa–Grazia feconda. Vedi, anche qui Dante continua a esplorare il silenzioso patto collettivo che predispone il nostro sguardo sulla sessualità.


Ma tu credi che la sodomia si possa davvero leggere in trasparenza in tutto il canto? Anche, poniamo, nelle parole con cui Brunetto profetizza a Dante l’esilio, oppure nel finale?

Lasciamo in sospeso la questione dell’esilio. Per quanto riguarda il finale, la faccenda è semplice. Il canto termina con alcuni versi in cui Brunetto, essendogli proibito mescolarsi alla successiva torma di sodomiti, “si rivolse, e parve di coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna; e parve di costoro / quelli che vince, non colui che perde.” Sembra una perifrasi faticosa. Però al palio di Verona il perdente veniva preso in giro e “premiato” con un gallo: cioè veniva schernito nella sua virilità. Brunetto, insomma, è uno che si impegna per difendere la sua reputazione di vero maschio, non perde terreno, non si fa cogliere con le persone sbagliate… “Mondano uomo”, così lo chiama il cronachista Giovanni Villani, forse riprendendo un verso in cui Brunetto stesso si descrive come “mondanetto”.


Cosa vorrà dire “mondano”, in questo contesto?

Affondato nelle cose del mondo. Io tradurrei: sensibile agli onori e ai piaceri, edonista, vanitoso, ma proprio per questo attento alle apparenze, ai rispetti umani, ai buoni rapporti con la comunità: quindi presentabile (pensa ai tre figli). Ma tutto questo ce lo facevano già indovinare i profusi elogi del canto XV. Dante non avrebbe dato un ruolo simile a un sodomita incallito e becero, come per esempio un altro dannato dello stesso girone, Andrea de’ Mozzi. Gli occorreva una figura esemplare.


Vuoi dire che Dante ha scelto Brunetto come Hollywood ha scelto Sidney Poitier? Un membro del gruppo discriminato, sì, ma educato, elegante, forbito nel linguaggio, insomma potabile?

Sì, in entrambi i casi c’è assimilazionismo: e non è un atteggiamento da buttare via, comprende comunque un prezioso elemento di accoglienza. Però la Commedia è più radicale, cioè più problematicamente onesta, di Hollywood. Indovina chi viene a cena? finisce con i fiori d’arancio, La calda notte dell’ispettore Tibbs con le scuse dello sceriffo razzista; invece Brunetto brucia nelle fiamme eterne.


Anche questo, comunque, è riduttivo. Brunetto è soprattutto un esempio di attenzione pedagogica, e di esperienza dell’esilio…

Mi correggo e mi spiego. Dante non sceglie un sodomita rispettabile per soddisfare i benpensanti, ma perché gli interessa proprio mostrare la naturalezza omosociale del sodomita: la confluenza di sodomia e rispettabilità, esemplarità, quindi anche valore pedagogico e fermezza nell’esilio.


* * *


Parliamo allora dell’esilio.

Questione più interessante. Vedi, il motivo principale per cui Dante sceglie Brunetto come profeta dell’esilio è certamente che il vecchio poeta è stato lui stesso un esule. Anche a prescindere dalla profezia vera e propria, tutto il canto è un gioco di soste e distacchi e vagabondaggi, con Dante che presenta Virgilio che “reducemi a ca”, e Brunetto che afferma “non puoi fallire a glorioso porto”, e via dicendo. Questa è gente che con i pensieri torna a battere sempre lì: il viaggio, il ritorno, la casa. Ma detto questo, anche la sodomia del maestro è un fattore importante. Certamente non è casuale che il canto dell’esilio sia anche il canto dell’omosessualità.


Sono due forme di esclusione…

Al contrario: sono due forme di inclusione, che comportano un’emarginazione a volte leggera a volte molto pesante, ma in sè sono previste e regolate dalla deontologia comunale. Della sodomia abbiamo già parlato; quanto all’esilio, è una punizione estrema, ma riconosciuta e praticata da tutte le parti in causa. C’è in esso un elemento di adesione allo status quo. Per spiegarmi meglio: Dante compie un gesto molto forte quando scrive, in Tre donne intorno al cor, “L’essilio che m’è dato, onor mi tegno”: ma il fatto stesso che egli faccia riferimento a una categoria culturale come l’onore mostra che non gli interessa negare senso all’esilio, depotenziarlo radicalmente come farebbe chi, per esempio, ci facesse una risata sopra.


Dall’idea che mi sono fatto, non sarebbe da lui agire così!

Sì, Dante ha una visione profondamente trasformativa della realtà – pensa per esempio alla sua speranza nell’impero – che può essere utopica, ma non è rivoluzionaria. Anche in questo è già profondamente italiano, appartiene al nostro paese senza rivoluzioni. Al tempo stesso la sua impressionante capacità poetica di vedere la realtà, che si rivela soprattutto in certe similitudini dettagliatissime e umili della Commedia, è radicata nella sua tendenza a rivolgere lo sguardo verso il basso. La grandezza del Paradiso sta in questa tensione, non sempre risolta, tra visionarietà e senso della terra sotto i piedi; la grandezza dell’Inferno è più intensa, ma un poco più facile – si sente che Dante lì gioca in casa. E’ un poeta che come primo movimento istintivo ha lo scavo, la memoria, la voragine infernale; deve accumulare una massa di realtà fisica depositata, di vita trascorsa, prima di giungere nello spazio metafisico del Paradiso; ed è ossessionato dalle origini, più che dal futuro – anzi si scaglia spesso contro i trionfatori dell’ultima battaglia, i parvenu, le “genti nuove” obliose del passato.


Mi concederai almeno che sodomia e esilio, se non sono vere e proprie infrazioni all’ordine dato, sono due condizioni limite…

Certo: la sodomia è il limite interno dello spazio omosociale urbano, l’esilio quello esterno. Sono due confini dell’esistenza condivisa. Per questo sono spazi in cui i nomi propri cessano di essere moneta di scambio. Hai notato che Dante quando parla dell’esilio difficilmente fa riferimenti precisi e concreti? Lo stesso accade con la sodomia, l’abbiamo già visto. In entrambi questi spazi si usano sentenze, traslati, allusioni. Sono luoghi scandalosi e sacri.


Quindi nel Brunetto che annuncia l’esilio vedi in controluce il sodomita?

Sì, e non solo per l’analogia topologica tra le due esperienze. Ci sono almeno altre due tracce. In primo luogo: la profezia di Brunetto fa perno sulla contrapposizione connaturata, quasi biopolitica, tra due ceppi di fiorentini: l’”ingrato popolo maligno”, disceso dai fiesolani, e il portatore di “onor” e “fortuna”, disceso dai romani. Un gruppo (esiliante) volgare e maggioritario, un singolo (esiliato) antico, eletto, ma vulnerabile. E’ esattamente la visione che mi aspetterei da chi ha fatto esperienza della differenza omosessuale (dico un sodomita accanito, non uno dei tanti che la praticavano occasionalmente): si è sentito separato da una Norma che è quasi una Natura, si è percepito temporaneamente come solo al mondo, e si è consolato pensando di appartenere in realtà a un’élite con credenziali venerabili: molti intellettuali sodomiti del Medioevo si rifacevano ai prestigiosi modelli erotici dell’antichità classica. Zeus e Ganimede, le Bucoliche di Virgilio…


E in secondo luogo?

Nelle parole di Brunetto, la metafora dominante è quella del divoramento. Ma lui la sviluppa in termini ricchi di connotazioni erotiche: il “fico”, il “becco”, lo “strame”, l’aver “fame” di qualcuno. È il linguaggio di chi ha felicemente goduto – almeno spero – “la vita bella” (come dice qui Brunetto) nei chiassetti di Borgo Santi Apostoli.


* * *


Tu pensi che fosse possibile, a quei tempi, scrivere un testo non omofobo?

Era possibile scrivere un testo meno omofobo. È stato scritto. Ma purtroppo l’autore era un artista meno grande di Dante, incapace di cogliere la complessità del nesso culturale che fa perno sulla sodomia. Sai chi? Brunetto.


Brunetto ha scritto di sodomia?

Ci ha lasciato uno dei rari testi d’amore omosessuale del Duecento: “S’eo son distretto inamoratamente”, una canzone rivolta al poeta Bondie Dietaiuti e scritta probabilmente proprio nel periodo dell’esilio.


Ma mi pare di capire che sia un fallimento.

È un tentativo coraggioso, e ha tutta la mia simpatia politica, ma resta comunque artisticamente inferiore (e di parecchio) a Inferno XV. Brunetto corteggia Bondie usando un linguaggio piattamente ricalcato sui moduli della poesia siciliana. Se solo avesse colto l’eccezionalità di ciò che stava facendo! Avrebbe potuto operare uno straordinario rinnovamento delle convenzioni liriche dell’epoca. Sarebbe stato quasi come far saltare in aria il vocabolario, il rimario e il senso comune. Non è casuale che proprio a Brunetto siano state attribuite due opere estremamente irregolari: Il mare amoroso, un guazzabuglio inestricabile di metafore sull’amore, per giunta senza l’obbligo della rima (cosa eccezionale nel Duecento); e Il pataffio, un poema nonsense quasi incomprensibile.


Ma sono attribuzioni corrette?

Assolutamente no: Il pataffio è addirittura del Quattrocento. Però ricordi quello che dicevamo sui nonsense di Edward Lear, e sulla fantasia dei contenuti e delle forme nelle opere di autori gay? In queste ipotesi errate si esprime, in forma di wishful thinking, un’intuizione giusta: l’omosessualità libera possibilità di espressione assolutamente esplosive, che richiedono anche un linguaggio nuovo.


Eppure Brunetto questo linguaggio nuovo non lo crea. Credi che gli sia mancato il coraggio?

Qui occorre fare attenzione a non essere troppo ideologici. Ci sono scrittori come Gadda che hanno nascosto (agli altri e forse anche a se stessi) le loro pulsioni sessuali proibite, perché sentivano che solo così avrebbero avuto la calma necessaria per scrivere: e, almeno nel caso di Gadda, a ragion veduta. Forse anche Brunetto, scrittore meno grande di Gadda, nei suoi libri ha dato il massimo che poteva grazie alla sua scelta di rispettabilità. O può darsi invece che questa scelta l’abbia imprigionato, o semplicemente abbia confermato i suoi limiti artistici. Forse uno studio approfondito potrebbe farcelo capire, almeno in parte. Ma una cosa è certa: tra i due versanti della sua vita c’è un nesso significativo. Nella canzone la scelta di un linguaggio piatto, che si mimetizza imitando i siciliani, fa coppia con l’uso di diverse tecniche (aggettivi in –e, eccetera) per nascondere il sesso della persona amata. E mentre Dante nel canto XV costruisce una messa in scena elaborata e ambigua, cioè si espone e rischia, Brunetto descrivendo i vizi nel suo Tesoretto – l’altro “Inferno” medioevale che ti avevo promesso prima – se la cava in modo molto più facile e pulito: liquida i sodomiti in pochi versi frettolosi. “Deh, come son periti / que’ che contra natura / brigan cotal lusura”, e finito lì. Difficile non pensare che volesse mettersi al sicuro, in senso sia artistico che morale.


Non sei troppo duro con Brunetto? Dante in fondo partiva avvantaggiato: non aveva la nomea del suo maestro.

Questo è vero. Ma il suo grande vantaggio è che non gli interessa sigillare i peccati in uno spazio astratto e lontano da sè; vuole sempre situarli entro una realtà di cui lui stesso fa parte. Pronunciare un mandato di comparizione personale e sociale, diretto, forte. L’unico, ma durissimo, criterio etico che l’opera d’arte deve rispettare è proprio questo: rappresentare il mondo con il massimo di verità, cioè con profondità e spessore. E’ questa, la ricchezza estetica, l’impegno che pone implicitamente domande etiche e costituisce il valore etico dell’arte – anche dell’arte omofoba; l’ovvia omofobia della tradizione letteraria non ne intacca assolutamente il valore… Ora ho risposto a ciò che mi chiedevi all’inizio del nostro discorso su Dante, no?


Sì. Ma di’ la verità: dietro tutto l’impegno che hai messo in questa lettura non c’è solo la volontà di chiarire una questione teorica. Io sento sullo sfondo una necessità, una passione, un’urgenza. Sbaglio?


* * *


No, non sbagli. Il fatto è questo: molti gay e lesbiche di oggi, coloro che Marzio Barbagli chiama “omosessuali moderni” – e con loro chiunque senta intensamente la violenza dell’omofobia – si scoprono, e parlo anche di persone abbastanza colte, a leggere soprattutto libri degli ultimi trent’anni, o soprattutto (ne parlavamo prima) libri stranieri. Oppure leggono i classici della tradizione italiana con autentico amore, ma anche con la sottile sensazione di non esservi rappresentati, riconosciuti, di non essere riamati fino in fondo. E si abituano così, anche nel confronto coi libri, a accettare una condizione di estraneità e invisibilità nel proprio paese, nella propria cultura.


Se però (come tu dici) la letteratura offre “domande etiche” e non “risposte etiche”, quello che descrivi è un falso problema. Nella migliore delle ipotesi un semplice equivoco, nella peggiore un delirio di political correctness.

È prima di tutto una difficoltà che va rispettata. Si prende sul serio, giustamente, l’affascinante (ma terribile) dilemma degli scrittori postcoloniali che devono utilizzare la lingua dei loro oppressori; per non parlare delle donne che devono farsi strada tra categorie culturali a loro estranee – per esempio le filosofe, quando si confrontano con un’idea tradizionale di “origine” che ignora del tutto l’esperienza della natalità. A maggior ragione si dovrà prendere sul serio la situazione di chi, da gay o da lesbica, legge e scrive nel contesto di una cultura che da secoli ha quasi solo disprezzo e silenzio per quelli come lei o lui. La cultura d’origine, in questi casi, è investita di un odio assoluto che coincide con un amore assoluto; è casa tua, ma sei chiuso fuori; è lingua madre e matrigna, tradizione e tradimento…


Non stai esagerando?

Può darsi. È un problema che sento molto. Ma penso che lo sentano anche altri, questo rischio: fare dell’omosessualità e dell’omofobia due assoluti. Forme metafisiche rispettivamente dell’amore e dell’odio, emblemi rassicuranti e manichei. Invece bisogna riuscire a vederle come parti interdipendenti e co–implicate…


Continui a usare questo strano aggettivo…

Mi piace, rende bene l’immagine che ho in mente. Dicevo: parti co–implicate della cultura e della storia italiana, quindi di noi stessi e delle nostre storie. Riuscire a vedere questo disegno comporta, comporterà, parecchio lavoro. Il popolo italiano, tanto “sessualizzato” dagli altri popoli, ha riflettuto davvero poco sulla dimensione sessuale della sua cultura! Dobbiamo rileggerla secondo un’inclinazione che la rinnovi, come un architetto costruendo un nuovo museo ci permette di vedere statue antiche in modo originale. “La nostra tradizione,” scrive il poeta Andrea Gibellini, “è una bellissima fortezza sempre da espugnare perché la portiamo nel cuore.”


Ben vengano i nuovi musei nelle vecchie fortezze. Però non ti sembra – per allargare il discorso – che gli italiani siano troppo legati al loro passato storico?

Troppo e troppo poco. Il legame con il passato, la sua stessa mole, sono intimi, invadenti. Si è tentati – non di respingere il passato apertamente, che sarebbe almeno un riconoscerlo – ma di neutralizzarlo, addormentarlo sotto una coltre di spirito antiquario, o più semplicemente travestire la nostra insicurezza da boria fascista. È difficile mantenere un rapporto vitale. Pensa alla letteratura: quando leggo uno scrittore inglese o francese che parla degli autori della sua tradizione anche remota, sento spesso le vibrazioni di un dialogo quotidiano tra amici. Con gli autori italiani mi accade più di rado.


Però gli scrittori del nostro Novecento hanno stretto rapporti fittissimi con la tradizione. Pensa a Gadda, Pasolini, Calvino, Levi, Manganelli…

Proprio questi nomi del passato recente mi fanno notare che nell’ultimo decennio il dialogo di cui parli – Calvino con Ariosto, Levi con Manzoni, Manganelli con Marco Polo, eccetera – è molto meno praticato. Pochi raccolgono la passione dantesca per le origini. E’ rarissimo che leggendo un libro di narrativa (la poesia è un altro discorso) ci si dica: qui c’è un dialogo con Machiavelli, o con Goldoni, o con Manzoni; un dialogo diretto, voglio dire.


Ci sono eccezioni. Tiziano Scarpa ha preso il titolo di Cos’è questo fracasso proprio da Goldoni.

Certo, le eccezioni ci sono. Un’altra – la principale, forse – è Michele Mari: ha scritto libri bellissimi che interpellano anche la tradizione italiana. E non a caso, per lui è stato fondamentale il filtro di Gadda e Manganelli.


Perché allarmarsi, comunque? Stiamo semplicemente attraversando una fase di immersione nel presente. In fondo in questi anni sono successe tante cose: non ultimo il passaggio clandestino alla cosiddetta seconda repubblica. C’è da raccontare un’Italia nuova e un mondo nuovo.

Guarda, a me non piace la mascherina di chi sale in cattedra e lancia il grido d’allarme. E il mio personale giudizio sulla letteratura italiana di questi anni è che stia manifestando una straordinaria vitalità. Per “vitalità” intendo anche un rapporto non pacificato (guai se lo fosse!) ma fluido e regolare con i diversi registri della lingua non letteraria dei nostri anni. Si raccolgono – anche grazie alla mediazione decisiva dei “nuovi scrittori italiani” giunti alla notorietà negli anni ’80 – i frutti maturi della rivoluzione annunciata quarant’anni fa da Pasolini: la nascita dell’italiano come lingua nazionale. Ma interrogarsi sul proprio rapporto col passato è importante soprattutto ora che le grandi trasformazioni globali impongono agli scrittori nuove sfide… Ecco, vedi cosa mi è scappato di dire…


Cosa?

“Sfida”: la parola–chiave del catechismo neoliberale. “Il paese affronta nuove sfide”, eccetera.


Non ti facevo così ideologico!

Non è questo il punto. Si può benissimo usare “sfida”: basta sapere quello che si fa. Cioè intuire che questo uso di “sfida” è un nuovo conio: una metafora dal senso nettamente positivo e eufemisticamente non–violento, impiantata (per via di traduzione, a fine anni ’60) su una cultura che si era quasi sempre attenuta al significato bellico della parola, o tutt’al più al sua traslato amoroso. Per questo è importante mantenere la prospettiva storica del linguaggio. Soprattutto nel caso dell’italiano, che è una lingua più lontana di altre dal parlato: in qualche misura una lingua inventata, un esperanto, un elfico…


Ma se dicevi tu stesso che questo è un problema che si va superando!

Intanto non è solo un problema – è anche una ricchezza. E poi, come problema non è del tutto superato, e probabilmente non lo sarà mai. Lo riassume bene il romanziere Umberto Casadei: “Per molti c’è ancora qualcosa di spettrale, nell’italiano, avente a che fare più con una suggestione che con un universo di cose presenti. Qualcosa di alieno. Si pensi poi al suono, a ciò che accoglie, a come cambia da posto a posto, anche a distanza di poche centinaia di metri. Esistono mondi che sfuggono ostinatamente alla sua presa e in molti casi sincerità e franchezza, cugine magari lontane, ma tali, della verità, non parlano l’italiano.” E tuttavia dobbiamo usarla, questa lingua in parte spettrale. Prenderla così com’è, e darle senso.


Altrimenti?

Altrimenti si rischia di ricadere in una condizione di sradicamento, di semplificazione, di oblio. Condizione che oggi costituisce una minaccia d’ordine più generale: lo vedi nello sdoganamento di Mussolini, nella liquidazione della Resistenza, negli occhi sgranati contro l’immigrazione, in ogni tentativo di darsi un’identità nuova, pulita, marketable, user–friendly.


Si dice che chi non ricorda il passato sarà condannato a riviverlo.

La frase di George Santayana ha svolto per cent’anni un ruolo storico necessario, e continua a svolgerlo grazie alla sua perfezione epigrammatica. Infatti è anche una perfetta frase a effetto. Parte come una massima da tema della maturità – “chi non ricorda il passato…” – e precipita in un finale gotico – il passato è male, l’oblio è male, il male tornerà a perseguitarci. Non a caso Santayana era omosessuale: solo un gay consapevole, forse, poteve sentire con tanta acutezza che occorre ricostruire un passato evanescente e al tempo stesso che quel passato è un luogo di dolore da cui per fortuna ci si è affrancati. Ma ovviamente il passato è anche bene, e comunque non può ripetersi così com’è stato.


È una frase molto bella, però.

È una frase forte e semplice, come lo è sempre una frase, un desiderio, un istante presente. La realtà è più complessa. Il passato è consegnato alla sua condizione stratificata, alla sua vitalità di torbiera e di dizionario. La poesia è anche il nostro passato, il bene che non si ripeterà mai uguale, ed è per questo che dobbiamo ricordarla. È il nostro punto di partenza, il custode della complessità che ci accomuna.

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