Intervista: Mario Sigfrido Metalli

30 settembre 2004, Babilonia, n. 219, aprile 2003

Mario Sigfrido Metalli è nato nel 1938. Poeta, scrittore di racconti, sceneggiatore, attore e soprattutto assistente regista per teatro e cinema. Primo e unico italiano a collaborare col proprio vero nome, dal 1956 in poi, come giornalista ad una rivista dichiaratamente omosessuale come la francese Arcadie di André Baudry.

È stato per molti anni collaboratore fisso per Babilonia, alternandosi a lavori di traduzioni dal francese.

Per l’editore Croce di Roma dirige una collana di romanzi erotici.

 

 

Cosa ti ha spinto a pubblicare una raccolta di poesie?

La voglia di raggruppare ciò che non era stato pubblicato sinora. In realtà sono poesie del periodo “nuovo”, diciamo, dopo quelle riunite ne Il desiderio e le pietre, pubblicate nel 1988. Il nuovo volumetto s’intitola Il mondo delle solitudini (Semar Publisher, Roma) perché io sento molto la solitudine. Ma una solitudine non angosciosa, di quello che sta li a compatirsi. È una solitudine viva, produttiva, accettata...perché sono poesie d’amore.

 

Amori presenti o passati?

Sono amori a volte neanche concretizzati... amori autentici, amori presenti, passati e qualcuno idealizzato proprio perché è l’Amore.

Ogni poesia è una storia d’amore, con un inizio, uno sviluppo e una fine. Perché di un amore quando comincia so già com’è la fine.

 

Ma una fine sempre uguale o sempre diversa?

C’è inevitabilmente una fine...dopo l’inizio e lo sviluppo. Ci si lascerà bene, oppure male, ma ci si lascerà comunque. Ogni storia ha il suo copione. Tutto questo porta ad un senso di solitudine. Per forza di cose...è una solitudine produttiva perché, pur sapendo che sono storie effimere, la solitudine è in attesa d’avere qualcosa...una nuova storia, una nuova “pienezza” che poi invariabilmente finirà di nuovo in una solitudine.

 

Si potrebbe definire un “intervallo”?

È una solitudine non angosciosa, con la quale io convivo benissimo. E non mi provoca depressioni o cose simili...perché in definitiva, bene o male, la riscatto con il mio ottimismo. Spero sempre che dietro l’angolo ci sia l’incontro felice che durerà un’ora, un giorno un anno... dieci... ma che invariabilmente dovrà finire. Perché è insito nella storia d’Amore.

 

Sono amori “ideali”...

“Ideali” per modo di dire, perché riguardano persone reali...

 

Allora l’“ideale” l’hai raggiunto e poi l’hai perso... o è ancora da raggiungere?

Ognuno ha un amore ideale, guai se non ci fosse. Sennò sarebbe sempre solo un atto sessuale... non so, quando incontri una persona e nasce un amore, di qualsiasi durata sia, anche in un breve istante è l’amore ideale.

 

Hai avuto grandi amori o solo un grande amore?

Ho avuto alcuni grandi amori.

 

E ad ognuno hai dedicato una poesia in particolare? Ci sono in questo libro?

Si, ci sono, ce n’è una per esempio che si chiama Blues dell’Angelo. Dedicata ad un ragazzo che si chiamava Angelo... siamo stati insieme un anno, era il solito cane perduto senza collare. Un ragazzo che ha avuto uno scontro con una famiglia irregolare, la madre non era sposata ma lui era riconosciuto dal padre. Un giorno ci fu una grossa litigata per cui fu sbattuto fuori di casa. Per questo girò per quattro o cinque giorni randagio finché me lo sono trovato davanti. Era il giorno del mio compleanno, eravamo nel locale Superstar nel 1976... e niente, portarono un vassoio con lo champagne e questo ragazzo era seduto in un angolo sconsolato... noi eravamo da quest’altra parte allegri, ha alzato gli occhi, mi ha guardato e i colpi di fulmine esistono. Lui mi ha detto “Tanti auguri” ... e poi io gli ho chiesto “Ma che ti è successo? Sembra che stai portando tutti male del mondo sulle spalle...”.

Mi disse brevemente ciò che era successo e che era stato buttato fuori di casa, io gli chiesi se voleva venire a dormire da me e lui rispose “Sì” e non se n’è più andato.

 

Entrò automaticamente nel tuo mondo...

Sì, divise la mia vita di quel periodo. Finì perché nel frattempo morì improvvisamente il padre, lui ebbe uno shock tremendo e la madre cercò in tutti i modi di riconciliarsi dicendo che era stato tutto un malinteso. Io sono rientrato a casa, c’era anche la madre, era lì tutta carina e dolce, mi disse “Lo riporto a casa, cerca di capirmi...” e io lo lasciai andare.

 

L’hai più rivisto dopo?

No, abita qui a Roma. Ci siamo sentiti una sola volta per caso al telefono. Molto carino, gentile, si sposava la settimana dopo, aveva trovato la sua dimensione. Non so cosa ne è stato della sua vita.

 

La poesia l'hai scritta adesso o allora?

No, tempo fa. Praticamente queste poesie sono un blocco dagli anni Novanta, sino al 1998, e poi ce ne sono nel gruppo centrale “Poesie dell’adolescenza” che sono proprio recuperate da quando avevo 17 o 18 anni.

 

Ne stai preparando altre?

Le poesie non è che si preparano, se ti viene la cosa butti giù qualche verso. Nel frattempo faccio il traduttore, ho appena finito di tradurre dal francese il romanzo Eric l’amante di mio padre di Albert Russo. Nato da padre italiano e madre belga in Zaire, vissuto lì fino alla rivoluzione, Russo andò da ragazzo negli Stati Uniti per gli studi e poi ritornò a Parigi.

L’ho conosciuto, è una persona molto simpatica. Uscito in libreria per l’editore Croce.

Rientra nel progetto d’una collana di volumi “Hammam” della quale io sono il curatore.

Un altro volume della stessa serie è Richard Guns: giochi tra uomini di Johnny P. Virgo che è porno che più porno non si può, ma è divertente, perché c’è un fondo d’ironia con delle esagerazioni da fumetto.

 

Ora su cosa stai lavorando?

Io scrivo sempre dei racconti, perché avrei voluto fare il romanziere. Ma sono pigro e non riesco mai a finire i miei romanzi. Così mi perdo nei tempi troppo lunghi...

 

Ti rifai al lavoro di sceneggiatore nel cinema, quando scrivi i tuoi racconti?

Il più delle volte racconto episodi della mia vita... sino ad un certo punto. Sono autobiografici nell’ambientazione e nei particolari. La storia poi magari non mi appartiene per niente. In uno di quelli recentemente pubblicati (Il buio della notte, in Off-Side, Edizioni Croce,1998 ) c’è la storia d’una violenza sessuale fatta ad un ragazzo in un collegio. Il collegio è il collegio in cui io ero... e tutto è autentico. Una piccola cosa a cui questo ragazzino sta pensando è un episodio accadutogli da bambino, ma è un episodio della “mia infanzia”. Anche se non sono io il ragazzo violentato del racconto. È una storia che ho appiccicato addosso al mio protagonista.

Un altro racconto (Le lagrime di Francesco in Via Pincherle, Edizioni Croce, 2001) si svolge negli ambienti in cui io ho vissuto, con persone che io ho conosciuto, con nomi e cognomi autentici.

Il nocciolo della storia parte da un fatto vero. Un ragazzino dirimpettaio che mi odiava... non so perché. E mi tirò una sassata di cui io tuttora porto le cicatrici. È lo sviluppo del racconto che è differente.

 

Il fatto della sassata ha molto in comune con ciò che scrisse Jean Cocteau a proposito del suo compagno di scuola Dargelos. Un irruente monello che lui amava in segreto. Che lo ferì con una palla di neve alla fronte. Episodio ossessivo poi ripreso in molte sue opere. Anche tu sei molto legato ai tuoi ricordi d’infanzia?

Si, una cosa che ho ancora dentro. È l’iniziazione sessuale di un ragazzino, che a tredici anni non sa ancora nulla dalla vita. Mentre tutti danno per scontato che questo ragazzino bello e alto sappia già tutto riguardo al sesso. Nessuno gli lo è andato mai a dire...Finché capita “qualcosa“.

Un episodio che è un “mio“ episodio: d’un compagno di banco che in un giorno di noia a scuola mi dice “Giochiamo a battaglia navale? Chi perde fa una “pippa” all’altro”. Io dissi di sì senza sapere neppure cosa fosse... Poi vinsi io e finii mezzo svenuto perché era la prima volta che mi capitava una cosa del genere. E il professore disse “Ma che succede lì?”, credendomi ammalato mi fece accompagnare fuori dal mio compagno. Il ragazzo poi mi raccontò “tutto” sul sesso e così quello che avevo sentito ma mai associato andò in ordine come tante caselle.

 

Poi da lì come hai scoperto che t’innamoravi dei ragazzi?

Io facevo l’amore con loro senza pormi dei problemi, a quell’epoca i ragazzini andavano a fare il bagno al mare nudi, poi finiva che uno montava sopra l’altro e le cose accadevano... ma finiva lì. Nessuno ci pensava più di tanto. Poi invece quando sono stato in collegio le cose hanno iniziato a definirsi meglio.

 

Ma sono rientrate anche sotto il “peccato”?

No, anche perché il collegio non era religioso. C’era un ragazzo, soprattutto, che era la puttanella della camerata. Nessuno di giorno lo frequentava ma di notte c’era la fila e lui era disposto a fare di tutto con chiunque ne avesse la voglia. E quindi le cose si sono molto chiarite.

Io sono stato beccato in flagranza di reato, avevo quindici anni, la porta si aprì e mi sorpresero mentre ero alle prese con un compagno. Ero un po’ galletto, nonostante la mia faccetta da angioletto, e dissi: ”Accidenti. Proprio mentre stavo venendo!”.

Così fui rimandato a casa e mia madre mi scusò dicendo: “Nella vita dei ragazzi talvolta accadono degli episodi, immagino che sia solo un’esperienza di collegio”. Non ne parlammo più.

Ogni tanto c’erano degli incontri col compagno di scuola di turno con cui si faceva i compiti.

Una volta in casa di mia nonna uno di questi, raccontando un film che aveva visto, si sdraiò sul letto e finimmo faccia a faccia. Finché io non mi spinsi oltre e lui spontaneamente disse: “Fai pure che per me va bene”. E andammo ben oltre alla scena d’un bacio. Col pericolo imminente che ci scoprissero. Erano giochi sessuali che non associavo assolutamente a cose gravi.

 

Ed ironia del caso tu sei davvero finito nel mondo del cinema...

Si a diciotto anni. Mia madre era una cantante lirica, una donna molto bella dalla chioma fulva, ogni tanto faceva delle piccole parti. In un film era con Beniamino Gigli, in un altro con Massimo Girotti e la Calamai. Apparve anche in un filmaccio da fumetto in cui era protagonista Silvana Pampanini.

Da bambino quando mi chiedevano cosa avessi voluto fare da grande rispondevo :”Farò l’attore cinematografico”.

A Nettuno, dove abitavo, frequentavo una compagnia teatrale dell’Azione Cattolica. Feci piccoli ruoli ma il sacerdote che dirigeva la cosa, chissà perché, non m’affidava mai una parte importante. Un giorno il mio più caro amico s’ammalò mentre stavamo facendo le prove per una commedia, un giallo mi pare, misero me al suo posto e fui più bravo di tutti gli altri che provavano già da settimane. Così capii che era veramente quello che volevo fare.

Poi ci furono dei tentativi. Compresa una presentazione a Vittorio DeSica, credo per Stazione Termini. Ma alla fine non accadde nulla perché qualche maligno ci fu riferì che DeSica aveva un debole per i ragazzi... E quindi non mi ci mandarono.

Poi invece la sorella di un mio amico s’era messa in mente che doveva fare l’attrice, aveva come agente il famigerato gay Renato Morazzani. Aveva già fatto Io Caterina con Oreste Panella, che guarda caso era stato il regista del film che fece mia madre con la Pampanini.

Io avevo già tentato di scrivere delle sceneggiature per fare domanda al Centro Sperimentale. Lei fece leggere un mio scritto non mi ricordo a chi, e lui trovò che io avevo delle capacità. A lei offrirono una parte e portò anche me come sceneggiatore.

Enzo Liberti, che aveva una sua celebre compagnia teatrale, aveva già fatto un film ed ora voleva trasporre per gli schermi una commedia. L’autore era morto e gli eredi chiesero per i diritti una cifra assolutamente assurda. Non sapevano come fare e allora io gli scrissi un soggetto rovesciando completamente la trama originale. Il film fu intitolato Processo all’amore, con Maurizio Arena, il soggetto fu firmato in quattro, tra cui anche la mia amica, perché ci prestò la casa in cui lavoravamo! Era il 1955.

Nel frattempo mi presentarono un produttore che aveva comprato i diritti sulla canzone Madonna fiorentina e io ne scrissi soggetto e pre-sceneggiatura. Quando ero pronto per andare ad incassare un anticipo vidi i titoloni sui giornali per il produttore arrestato per non ricordo quale inghippo.

Nel frattempo avevo trovato altre amicizie nell’ambiente. Con il celebre scenografo Dario Cecchi... Poi frequentavo la casa del barone Paolo Langheim, che aveva Palazzo Orsini e l’isola La Gaiola a Napoli. Alle sue feste c’era anche Rock Hudson, il suo amante italiano Fabrizio Mioni e gente del cinema a quel livello.

Erano i tempi in cui a Roma capitava di tutto, anche di vedere per la strada Marlon Brando mano nella mano col suo amante Christian Marchand!

Per altre vie avevo cominciato a frequentare anche la compagnia del Teatro Ateneo, retta da Lucio Giaravelli. Lì recitava Giulietta Masina con Nico Pepe. C’era la possibilità che facessi il sostituto del protagonista.

In quel momento iniziai anche a fare “il negro”, cioè scrivevo sceneggiature per altri senza che il mio nome comparisse. Uno di loro era Zavattini. Con un mio amico scrissi una cosa che poi lui stravolse completamente. Il film si chiamò Cinque poveri in automobile, regia di Mario Mattoli, con Eduardo De Filippo e Walter Chiari. Noi avevamo scritto una storia di ragazzi di borgata dal titolo La mia bella fuoriserie, perché avevano vinto alla lotteria un’auto di lusso. Mi venne da ridere quando Zavattini dichiarò: ”Era un soggetto che io pensavo sin dal 1939”.

 

E il tuo incontro con Luchino Visconti?

Accadde per vie traverse, diventammo amici e gli chiesi un’infinità di volte di farmi fare un ruolo. Non so perché non ci lavorai mai. Ero anche il suo genere ma non osò mai farmi avances.

Fu così anche con Mauro Bolognini... lui abitava in Piazza di Spagna, era già famosissimo, e si girava sempre vedendomi passare. Un giorno gli ho fatto un gran sorriso e ci siamo salutati. C’era un ragazzino bellissimo che abitava in Via Frattina, di nome Vassilij, che voleva far l’attore come poi fece, di cui io ero pazzamente innamorato. Credo che pure Bolognini ci avesse messo gli occhi sopra. Un giorno ci vide insieme e ci fermò. Ci mettemmo a parlare come se fossimo da sempre dei grandi amici. Poi ci siamo frequentati spesso, finché un giorno lui, tralasciando il cinema, incominciò a lavorare per il teatro lirico.

Aveva già fatto la rassegna Chigiana con Tosi e Zeffirelli. Bogianchino, che era il direttore del Teatro dell’Opera, gli propose di fare qualche regia. M’ero già presentato a Bogianchino come aspirante regista, avevo già realizzato opere in teatri di provincia, e un giorno lui mi chiamò per offrirmi del lavoro. Io speravo in un grande debutto ma mi trovai di fronte Mauro Bolognini che in quel momento cercava un’assistente già pratico di lirica. Bolognini fu molto sorpreso nel vedermi e mi assunse subito. Era il 1963.

Lui fece Tosca con moltissime repliche, che durarono quasi due anni. In realtà cambiavano gli interpreti ed ero io che dovevo rifare tutto ogni volta. Infatti Bolognini era tornato al cinema col film Le bambole, con la Lollobrigida e Jean Sorel. Mauro ogni tanto veniva a controllare le prove.

In quel periodo c’era stata la famosa rottura tra Visconti e Zeffirelli e siccome Bolognini aveva preso le parti di quest’ultimo io dovevo accuratamente nascondergli il fatto che frequentassi Visconti.

Luchino in quel periodo stava lavorando a Le nozze di Figaro, poi rimaste storiche.

Per un periodo fu difficile gestire la situazione perché mentre andava in scena Tosca Visconti faceva le prove nello stesso teatro e c’incrociavamo ovunque.

Chiesi più volte a Visconti di farmi lavorare con lui, ma lui aveva già come assistente Alberto Fassini. Inoltre mi consigliò di restare con Bolognini perché era un bravo regista con cui avrei imparato molto.

Quando riferii la cosa a Bolognini lui ne fu molto contento e poi telefonò a Luchino per ringraziarlo: fu il momento in cui si riappacificarono.

 

E Pasolini l’hai conosciuto?

Si, ma era tutto un altro mondo. Anche se in definitiva io qualcosa di pasoliniano ce l’ho nella visione della vita.

Lo conobbi una sera in casa d’un amico, era il periodo in cui lui era molto intimo di Sandro Penna, che io conoscevo già. Era un uomo con molte fisime e anche un po’ di prosopopea. Un intellettuale scontroso. Penna invece era una delizia di uomo. Con cento miliardi d’insicurezze, di smemoratezze studiate a tavolino ed altre no. Lo conobbi molto tempo prima che si barricasse in casa e vivesse in povertà tra i suoi libri. Lo conobbi quando frequentava le rive dell’Aniene insieme a Pasolini. Nelle famose “marrane”, pozze in cui facevano il bagno nudi i ragazzi. Tutto nasceva da lì...

 

Anche la poesia?

Beh, io direi anche tanta prosa!

 

Secondo te che rapporto c’è tra un “artista” e la sua sessualità? Cioè, crea opere d’arte per giustificarsela?

No, io direi che sono due cose indipendenti l’una dall’altra. Io protesto quando dicono “uno scrittore omosessuale”. Non esiste una scrittura omosessuale. Esiste un omosessuale che scrive, che fa il pittore o il regista. Come si fa a dire che Visconti era solo “un regista omosessuale”?

 

Ma c’è comunque un certo “gusto”. Cioè se Visconti non fosse stato gay avrebbe fatto capolavori di tale livello? E se invece Fellini fosse stato gay avrebbe fatto di meglio?

Non lo sappiamo... Forse sì.

Fellini sicuramente non lo era. Ma aveva grandi curiosità, affinità e passioni per i gay. Basti pensare al suo “doppio” Marcello Mastroianni. L’identificazione era a livello freudiano e nessuno dei due se ne faceva un problema. Come si fa a dire che Fellini non era omosessuale? Certamente perché non la praticava. Ma una componente omosessuale fortissima c’era, in lui. Aveva delle grandi simpatie. Certe figure, certi ragazzi che si vedono nei suoi film...

Franco Caracciolo che fa l’ermafrodito nel Satyricon? Caracciolo c’è anche in vesti ambigue in Fellini 8 e mezzo, in Tre passi nel delirio e in Roma. Come non si può dire che Visconti non fosse anche eterosessuale? Questi confini netti non esistono.

 

Anche Alberto Moravia era così...

Lui nel 1988 era a capo della giuria del Premio De Libero, in cui venne premiata la mia prima raccolta di poesie e lodò talmente tanto, in pubblico, il mio lavoro, che nessun altro membro della giuria poté opporsi. Oltre all’intimità con Pasolini aveva un’amicizia sfrenata con Dario Bellezza. Alle sette della mattina o gli arrivava una telefonata da Bellezza o telefonava lui. Dario lo accompagnava ovunque. Naturalmente odiatissimo da Carmen Llera, moglie di Moravia. Forse anche perché Dario era molto amico della scrittrice Dacia Maraini, precedente amore di Moravia.

Con Elsa Morante, la prima moglie, ci fu un tremendo litigio tra lei e Bellezza, a causa di ciò che lui scrisse su un giornale a proposito del romanzo Una storia. Facevo parte del “Clan Bellezza” e quando ci scontrammo con la combriccola del “Clan Morante” in una trattoria scoppiò una baruffa.

Oggi non esiste più niente di simile tra gli intellettuali. Visconti, Bolognini, Pasolini... tutti morti.

Facevano parte di piccoli mondi che hanno toccato la mia vita. Tutto li. Piuttosto che andare a cena con Visconti io ho sempre preferito, magari, il barista che mi serviva un caffè perché aveva un bel sorriso. Perché? Perché mi perdevo dentro due occhi azzurri dietro il bancone di un bar!

 

Che però tu nelle tue Solitudini ricordi più di Visconti...

Si, lui si faceva delle risate, che vuoi... io ero così!

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