recensione di Mauro Giori
I 120 film di Sodoma: un pamphlet contro la pornografia spacciato per saggio cinematografico
Attraverso un troppo disinvolto sincretismo psicanalitico e sullo sfondo di un facile marxismo, Grossini non scrive in realtà una "analisi del cinema pornografico", come vorrebbe il sottotitolo, bensì enuncia una condanna psico-sociologica della pornografia.
Le illuminanti convinzioni di Grossini sono così riassumibili: il cinema pornografico degrada la visione cinematografica a un atto malato di semplice contemplazione di una sessualità morbosa (perché sconnessa dall'amore) che fa regredire lo spettatore a uno stadio infantile di semplice voyeurista che preferisce guardare il sesso anziché praticarlo. Il tutto promosso dalla società capitalista, che in questo modo rincretinisce lo spettatore distraendolo dai problemi reali della società stessa.
Il culmine dell'analisi, se così si può definire, dell'autore, tutta incentrata esclusivamente sulla pornografia eterosessuale, risiede nella convinzione (già anticipata a p. 11) che lo spettatore del film porno regredisca a uno stadio immaturo e perverso di sessualità, che ha per nome omosessualità. "Perversione e omosessualità", che sarebbero il "frutto dell'eccessiva e apparente corsa alla libertà" (p. 78) delle società moderne, secondo Grossini sostanziano il cinema porno, tanto che "il fantasma dell'omosessualità è latente in ogni amante del voyeurismo filmico" (p. 85), poiché egli si intromette sulla scena di un atto sessuale tra uomo e donna identificandosi con l'attore maschio, che tuttavia rimane in scena e che finisce con l'attrarre lo spettatore più ancora che il corpo femminile (p. 43).
La tesi di Grossini non può vantare nemmeno il pregio minimo dell'originalità: si basa infatti su un breve articolo di Liborio Termine, suo collega alla rivista "Cinema Nuovo", che a sua volta si limitava a riassumere tesi di Cesare Musatti. Termine si spingeva fino a sostenere che "la ricerca morbosa di un godimento da ottenere sempre per interposta persona", propria dello spettatore di film porno (eterosessuali), non ha altro scopo che permettere a tale spettatore di "evitare di dichiarare a se stesso che è un omosessuale che ha paura di confessarlo e di riconoscerlo".
Questa tesi permette a Grossini di caricare ulteriormente il suo attacco alla pornografia, mutuando dalla psicanalisi la convinzione che l'omosessualità rappresenti una forma immatura e involuta di sessualità. In questo modo Grossini mette a carico dello spettatore di film porno una nota di perversione aggiuntiva a completare un quadro clinico che lo condanna già in partenza.
Lo spettatore del porno (ma qua e là addirittura quello del cinema in generale, secondo Grossini) sarebbe infatti una sorta di idiota incapace di distinguere tra realtà e fantasia, assorto com'è nella contemplazione del film pornografico. Tutte le facoltà psichiche di questo spettatore, quasi non facesse altro nella vita, sarebbero assorbite in buona sostanza dal film porno, che perciò gli impedirebbe di riflettere sul mondo reale nel quale vive.
Chi vede film porno non può insomma accedere a una sessualità normale, né a una comprensione critica della società.
Perle di saggezza di appena vent'anni fa, in cui noi omosessuali rappresentiamo il punto di arrivo di un processo degenerativo messo in atto e sostenuto dalla società capitalista.
La presunzione di correttezza dell'autore è tale che di fatto non porta nessuna prova scientifica al suo discorso, di cui addirittura arriva ad ammettere in una pagina l'indimostrabilità. Ma se dietro ci sono dogmi vulgati quali marxismo e psicanalisi, occorrono prove?