recensione di Mauro Giori
Belli e dannati
Nell'elenco non poi foltissimo dei film che hanno segnato l'immaginario di molti spettatori gay, Belli e dannati occupa un posto d'onore. Il personaggio di Mike, bello, tenero e romantico, è di quelli che fanno sognare: se poi prima di venire a letto ti pulisce da cima a fondo anche la casa... La sequenza in cui confessa a Scott il suo amore intorno al fuoco si è insediata a pieno titolo nell'immaginario gay dell'epoca, accanto a quella in cui l'Alec di Maurice entra nottetempo dalla finestra del fortunato protagonista per regalargli un'intensa notte d'amore (in senso sia fisico che affettivo). Il fatto che Scott, come il Clive di Maurice, rifiuti l'amore del suo pretendente per una ragazza scipita e insignificante, non fa che esasperare la simpatia dello spettatore per l'incompreso e maltrattato Mike.
Ma non c'è solo romanticismo in questo che è rimasto forse il film migliore di Van Sant, di certo il più ambizioso. Nel ritrarre l'esistenza di due prostituti di Portland, Van Sant fonde registri molto diversi alternando con disinvoltura realismo e visione, dramma e sogno, slang e versi shakespeariani.
Ma anche se una parte consistente dell'intreccio non è altro che un'attualizzazione dell'Enrico IV, le influenze più consistenti gli provengono dalla cultura americana: western e road movies, underground e Pop Art (Van Sant stava progettando un film su Warhol), i primi film di Morrissey (influenza testimoniata anche dalla scelta di Udo Kier), la letteratura beat... Nonostante influenze così disparate, Van Sant riesce a trarne un risultato molto personale, certamente più interessante dei film che ha sfornato nel suo utimo periodo hollwoodiano (a cominciare da Will Hunting).
Allo stesso tempo è però difficile negare che il regista non riesce sempre a controllare adeguatamente una materia tanto variegata e stridente: molti personaggi sono lasciati al livello di macchiette, talora un po' ridicole, e nemmeno il personaggio di Scott riceve le cure di cui necessiterebbe per essere sviluppato appieno. Inoltre la materia che sostanzia il film risulta in certi momenti eccessiva e rischia di scivolare nel grottesco laddove più insegue il dramma (il caso limite è la rivelazione che Mike è frutto incestuoso).
Ma il vero punto debole del film è il mediocre Keanu Reeves, che non riesce a reggere in nessuna sequenza, nemmeno dove è protagonista, il confronto con River Phoenix, che ha dato qui la sua migliore interpretazione, dimostrando non solo le sue capacità attoriali, ma soprattutto la crescita compiuta dai tempi delle sue prime apparizioni televisive, quando era appena dodicenne. La sua morte prematura ha fatto sì che questo film, interpretato a soli ventuno anni, sia rimasto il suo canto del cigno (dei cinque interpretati nei tre anni successivi nessuno regge il confronto con questo), facendolo risuonare di un'ulteriore nota malinconica.
Phoenix ha dato al film un notevole contributo anche in termini di improvvisazione. La citata sequenza della confessione intorno al fuoco, ad esempio, la si deve proprio a lui: nella sceneggiatura originale Mike confidava a Scott solo di essere stanco della vita che stava conducendo, ma non era prevista nessuna confessione sentimentale (in una primissima versione non c'era nemmeno Scott a interloquire con lui, ma solo suo fratello/padre). Phoenix l'ha trasformata in una scena romantica e struggente, certo il vertice emotivo di questo melodramma triste e raggelato (basta vedere il modo con cui Van Sant film le scene di sesso), che soprattutto nel finale enigmatico e inquietante toglie alla tradizione dei road movies buona parte del loro ottimismo (in un primo montaggio Van Sant rivelava che a raccogliere Mike era il fratello, attenuando così l'effetto di apertura malinconica dell'ultima inquadratura).
Insomma, sebbene non si possa certo dire che Belli e dannati sia un film perfetto, difficilmente potrà lasciare indifferenti e se talora Van Sant pasticcia, riversa comunque nel film un immaginario personale e originale, forte e seducente, che troppo spesso è mancato alla successiva ondata di gay exploitation costituita per lo più da film insipidi e innocui, politicamente corretti ma incapaci di comunicare emozioni, di provocare, di rimanere nella memoria.