recensione diMauro Giori
You should meet my son
L’inizio è promettente: l’ennesimo appuntamento al buio organizzato per Brian dalla madre con una ragazza, la quale capisce subito che il giovane è gay e si diverte un mondo a metterlo in imbarazzo, ha momenti effervescenti. Poi il film si siede e non si riprende più, anche perché la ragazza, che faceva sperare in una prosecuzione scoppiettante, scompare subito.
La sceneggiatura evita lo sviluppo più scontato (cioè che Brian si rimetta con il fidanzato iniziale), ma si cercherebbero invano altri meriti. Certo il film è pieno di buone intenzioni nel rappresentare il diritto alla felicità del protagonista, nonché la gara di solidarietà di tutti i personaggi per salvarlo dalla tentazione di accasarsi con una donna che della felicità è la nemesi (perché repressa, religiosa, repubblicana, ecc.). Ma le buone intenzioni sono alla base di tanti film gay festivalieri senza altri pregi, e con molti di essi You Should Meet My Son! condivide anche una disperante fattura dilettantesca. Di conseguenza, una volta che la sceneggiatura si è arenata, gli interpreti non sono in grado di risollevarla e possono solo scandire le loro battute con la buona volontà e i tempi rilassati del teatro amatoriale.
Quel che è peggio, Hartman imperversa sequenza dopo sequenza con imperturbabile sprezzo dei tempi comici. Non vi è scena che non sia tirata per le lunghe fino a estenuare le possibilità comiche dell’occasione che l’ha generata, vanificandone la riuscita. Il risultato è una sit-com troppo prolissa per essere divertente e troppo fatua per riuscire credibile quando lancia frecciate all’edonismo e all’annessa ossessione per la gioventù della comunità gay. Comunità rappresentata per stereotipi risaputi: l’adolescente vanesio, il cubista di buon cuore, il leather paterno, la drag fashion victim, il ragazzo della porta accanto tribolato da pene d’amore. In qualche momento ho temuto che improvvisamente si mettessero a cantare tutti insieme YMCA o Macho Man.