recensione diGiulio Verdi
Saremo liberi, uno di questi giorni
Los Angeles, 1979: Rudy Donatello (Alan Cumming) è un aspirante cantante in cerca di contratto che sbarca il lunario facendo la drag queen in un bar sgangherato. È proprio lì che una sera si innamora follemente di Paul Fleiger (Garret Dillahunt), avvocato mascellone e velato, appena divorziato dalla moglie. Quella sera stessa, rientrando a casa, Rudy trova Marco, un ragazzo quattordicenne e down, abbandonato a se stesso in seguito all’arresto della madre per possesso di droga. Un po’ per istinto paterno e un po’ per pura e semplice solidarietà umana, Rudy accoglie Marco nel suo umile appartamento, gli dà un letto e gli prepara due crackers col formaggio per colazione. È quando arriva un’arcigna e sbrigativa assistente sociale a portarlo via che Rudy si rende conto di voler dare un futuro al ragazzo: per questo si rivolge a Paul, con il quale inizia una lunga storia d’amore e un’improba battaglia legale per la custodia del ragazzo.
La vicenda è tratta da una storia vera, che però ebbe luogo sulla costa orientale ed era priva dell’elemento con il quale gli sceneggiatori hanno voluto renderla più attuale: il rapporto di coppia. Nella realtà, insomma, Rudy lavorava come drag queen a New York ed era single.
Curiosamente – e fortunatamente – il film privilegia di gran lunga l’aspetto procedurale/didascalico rispetto a quello melodrammatico, negando anche nel tragico finale una commozione che sarebbe stato fin troppo facile suscitare. Uno per uno, vengono fatti emergere e poi smontati tutti gli odiosi capi d’accusa che vengono tradizionalmente rivolti alle coppie omosessuali desiderose di adottare: “lo volete per soddisfare il vostro egoismo e non per il bene del bambino”, “lo fate per non finire vecchi e soli”, “lo prendete in casa al solo scopo di molestarlo e fare le vostre cosacce davanti a lui”, “lo renderete senz’altro gay col vostro esempio”, “lo coprite di affetto per fingere di essere la famiglia che non siete”. A fare le spese dell'odio è proprio il bambino che gli accusatori dichiarano di voler proteggere.
La sceneggiatura di Travis Fine e George Bloom sviscera la questione senza mai cedere al pietismo, e facendo in modo che i due protagonisti non abbiano neanche un momento per autocommiserarsi (a onor del vero ne hanno uno, verso la fine, ma è rapidissimo e indolore) – il che è già un buon risultato.
Essere adatti a essere figure paterne non significa negare la propria (omo)sessualità: Rudy e Paul si scambiano manifestazioni d’amore spesso e volentieri, nel privato della loro camera da letto e nel pubblico di una spiaggia o di un tribunale.
L’handicap del bambino è evidente ma non determinante, fin dalla prima inquadratura: non se ne fa una bandiera né si istituiscono paralleli grossolani tra la disabilità e l’orientamento omosessuale (come fa qualche mediocre regista italiano). Rudy e Paul vogliono adottare Marco perché gli vogliono bene, e lui ne vuole a loro.
Non si cede neanche alla tentazione di far di tutta l’erba un fascio, in un'inverosimile lotta tra “normali vs. diversi”: la negatività esiste sia in tribunale (il perfido procuratore distrettuale) sia al bar (un invidioso collega di Rudy) – e la stessa cosa vale per le persone di buon senso (c’è l’altro collega di Rudy e c’è la maestra di Marco).
Se si aggiungono l’ottima prova di Alan Cumming, quella un po’ legnosa di Garret Dillahunt (che comunque funziona proprio in virtù della sua salda mascella), un cast di contorno quasi interamente televisivo ma decisamente sopra la media (anche cinematografica) e “Metaphorical Blanket” di Rufus Wainwright sui titoli di coda, il risultato finale è un film gradevole, triste e militante al punto giusto.