Endgame

27 luglio 2013

La giovane marchetta di buon cuore, violentata da piccola e poi incompresa da grande nella sua ricerca d’amore, sfruttata da clienti violenti e magari (come in questo caso) anche da un manesco pappone della malavita, è ormai un tipo consolidato. L’intreccio di solito volge al melodramma, mentre in questo caso si preferisce (quantomeno in parallelo) un risvolto thriller. Il tutto è però sufficientemente risaputo da sollecitare in effetti scarsa empatia, anche a causa di tre ulteriori buone ragioni.

La prima è che l’intreccio è confuso e ha talvolta l’aria di una prima bozza in attesa di revisione. Ad esempio appare superflua la messa in campo della famiglia del pappone, che poi non ha nessun rilievo nel racconto, nemmeno relativamente all’uomo stesso e alla costruzione della sua psicologia. Appare altresì piuttosto singolare che tutti gli scagnozzi del malavitoso scompaiano improvvisamente dalla scena alla morte del loro “datore di lavoro”, quando invece ci aspetteremmo di vederli dare la caccia al suo (involontario) assassino, cioè Tom, la marchetta di cui sopra. Ma rientrano in tale confusione generale anche i personaggi dei due adiuvanti di Tom, le cui crisi psicologiche non vanno da nessuna parte, e la morte di lei: attribuire al personaggio della donna l'illusione di poter afferrare la pistola con le mani legate dietro la schiena e centrare il cattivo anziché se stessa è pura e semplice misoginia.

La seconda ragione è che Daniel Newman ha indubbiamente il physique du rôle per la parte del rent-boy, come lo stesso Tom si definisce, ma gli manca tutto il resto. In particolare, tra i doni cui è stato destinato alla nascita certo non vi era ombra alcuna di vis istrionica. Quando dovrebbe scavare nel fondo del personaggio per farne emergere i sentimenti, ne fa invece strazio e l’imbarazzo monta nello spettatore. È quanto accade soprattutto nel finale, dove non sono certo le sorti di Tom a impietosire lo spettatore, bensì quelle della lingua che fu di Shakespeare. Rimane un mistero come il regista possa aver pensato che il volenteroso Newman fosse all’altezza di simili monologhi giacché non riesce nemmeno a simulare non dirò dolore, ma almeno indolenzimento nelle sue movenze. Il che non è poco dal momento che passa tre quarti del film pieno di lividi e ammaccature che l’attore semplicemente ignora deambulando con disinvoltura. Sarà forse per questo che passa metà del film nudo, in modo cioè che le ecchimosi simulate dal truccatore con spreco di coloranti ricordino costantemente allo spettatore le pene che si deve immaginare affliggano il personaggio, se non il suo interprete. L’unica cosa che riesca a Newman in modo convincente sono le pose languide.

Il che ci porta all’ultimo problema: se Tom, com’è evidente, è gay, lo sviluppo per cui la marchetta scopre il vero amore, e persino il vero sesso (parole sue), solo andando con una donna è offensivo e deprecabile. E un simile risvolto, inflitto dal produttore di Moments With Johan (sì, proprio la storica pornostar di Belami), non può che essere una scelta ipocrita (nel tentativo di accontentare un po’ tutti e di non fare un film gay solo per gay) oppure semplice autolesionismo. Senza contare che farsi senza remore la moglie di colui che lo ha aiutato a salvarsi priva Tom di una buona parte della sua bontà d’animo, in cui pure dovremmo credere. A riparare non basta l’ambiguità del finale, che strizza l’occhio allo spettatore senza far capire se Tom ha trovato finalmente un fidanzato o ha semplicemente ripreso il suo mestiere di sempre.

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