recensione diMauro Giori
7 consigli per affrancarsi dal porno (se proprio se ne sente la necessità)
Sean Paul Lockhart, protagonista e regista di questo film, altri non è che l’altra personalità del pornodivo Brent Corrigan, il quale aveva fatto parlare di sé alcuni anni fa per aver mentito sulla sua età interpretando i primi film da minorenne. Da qualche tempo il piacente monello ambisce a una carriera “regolare”, sicché ci ha regalato tra l’altro una comparsata che nessuno ha notato in Milk e camei in film in cui non poteva sfigurare, come Another Gay Sequel e The Big Gay Musical.
E ora anche l’esordio alla regia, per il quale Lockhart ha scelto un film molto ambizioso, un giallo dal triplo intrigo che coinvolge un maschione gay reduce dell’Afghanistan, un maschione gay vedovo di un caduto in Afghanistan, e la sorella di quest’ultimo. Un film che avrebbe richiesto competenze e abilità molto superiori a quelle messe in campo per risultare efficace e non ridursi a una parodia di se stesso. Il fatto è che certe cose si fanno in modo un po’ diverso quando si lavora per il circuito regolare, e questo sembra essere sfuggito a Lockhart/Corrigan. Qualche esempio:
1) è comprensibile che un attore abituato a recitare senza non lo sappia, ma nascondere il microfono nelle mutande non è necessariamente la scelta migliore. Quando il fruscio degli abiti copre persino il dialogo (ad esempio nella prima scena di Andrew con la sua fag-hag personale) è segno che occorre cercare un’alternativa, e la scena andrebbe rifatta, come pure quando il livello dell’audio cambia improvvisamente durante la stessa sequenza (la presa diretta non è peraltro un obbligo);
2) esistono savie alternative alla sotto-illuminazione e al controluce che innonda l’inquadratura senza permettere di vedere nulla;
3) quando il livello di birra nel bicchiere cambia a ogni stacco, così come i gesti degli attori coinvolti nell’inquadratura, è segno che sarebbe tempo di spendere qualche soldo per assumere un segretario di edizione;
4) Corrigan è un bravo attore rispetto alla media del porno, Lockhart è un dilettante rispetto alla media istituzionale, eppure in Triple Crossed tutti gli altri sono peggio di lui. Sarebbe bene scegliere i comprimari in funzione delle loro capacità recitative oggettive, e non solo in modo da essere sicuri di non sfigurare;
5) soprattutto se si va raccontando che la propria ambizione è quella di essere il nuovo Cameron Mitchell (insomma, si vorrebbe fare il nuovo Shortbus), non si capisce perché le comparse possono mostrare tutto, anche in dettaglio, ma i protagonisti no. Ricorrere solo per sé alla fine arte del fuori campo, giusto perché si ha l’esigenza di promuoversi come attore “serio”, aumenta l’evidenza dell’artificio e il fastidio conseguente. La strada verso Shortbus è ancora lunga…;
6) se proprio si sente il bisogno di fermarsi su un dettaglio (ad esempio le pillole cadute a terra e lì dimenticate), bastano meno di 30 secondi di inquadratura fissa. Specialmente se serve solo a vendere poi un palpeggiamento dei pettorali come massaggio efficace contro gli attacchi di panico. La prossima volta che leggessi sul giornale di un gay che ha massacrato il fidanzato perché, durante un attacco di panico, questi lo ha pastrugnato (mi si passi il dialettismo) anziché dargli il Prozac, fossi in Lockhart mi sentirei un po’ in colpa;
7) nella realtà, e nel cinema comune, i corpi non sono necessariamente tutti perfetti e statuari, dal protagonista fino all’ultima comparsa, al punto che alle volte si ha difficoltà a capire chi è chi. Questo accade solo nel cinema porno e nel cinema gay di basso livello, e se ci si accontenta di confezionare un soft-porno per un festival gay è inutile edificare una storia la cui complessità finisca solo col mettere meglio in luce le troppe lacune produttive.