Milk

18 gennaio 2010

Pur essendo impostato come un film biografico molto tradizionale, Milk rappresenta un'eccezione felice nel panorama del cinema gay, quasi sempre sconclusionato e dilettantesco, tanto che con il pretesto della militanza e dell'underground si è limitato a raffazzonare prodotti mediocri, forte del fatto che per decenni i gay sul grande schermo non si sono visti se non per massacrare poveri innocenti eterosessuali, o per sollazzarli solleticando il senso di superiorità di cui necessitava la loro precaria mascolinità, o per espiare le proprie colpe nel martirio. Il cinema gay ha così potuto a lungo spacciare provincialismo per minimalismo, incapacità per antiretorica, ignoranza della tecnica per scelta estetica, nella convinzione che mostrare due maschietti che si baciano fosse sufficiente a fare cinema gay, perché era qualcosa che non si era mai visto. Salvo ovviamente che negli altri cento film gay altrettanto brutti che affollavano i festival specializzati.

Va da sé che in un certo momento storico, non lontano, questi film sono stati in parte opportuni e necessari, quando il cinema gay era appunto un cinema da festival specializzato che poteva ambire a platee ridottissime e raramente poteva permettersi eleganza, rifinitura, ambizioni estetiche. Andava già bene se riusciva ad affrontare uno dei molti temi che il cinema ufficiale aveva rimosso. E ci teniamo cari quei pionieristici, brutti tentativi di sfondare porte chiuse.

Oggi però si sfondano così porte aperte, e non c'è nessun motivo per cui uno spettatore gay debba accontentarsi di prodotti scadenti solo perché indipendenti (o presunti tali). Ogni volta che mi invitano a presentare film gay in qualche rassegna, provo un senso di disagio trovandomi a dover avvallare l'inoculazione di film grossolani a un pubblico ignaro di ciò che li attende. Film magari utili per suscitare discussioni, ma irrimediabilmente sgraziati.

Con Milk non sarei a disagio. Van Sant ha avuto i suoi alti e i suoi bassi, a livello produttivo come ideologico, e altrove ha saputo sperimentare in modo più personale, ma con Milk ci ha dato uno dei pochi film gay degli ultimi trent'anni che hanno tutto ciò che un buon film gay dovrebbe avere: spirito militante, cognizione della nostra storia, capacità di affrontare temi importanti senza controproducenti didascalismi, una certa eleganza, lucidità e, non meno importante, l'abilità retorica necessaria a coinvolgere lo spettatore (ad esempio nell'uso parco anche se sfacciato del melodramma, per altro dichiarato, tramite i rimandi alla Tosca). Non è tutta farina del sacco di Van Sant: qualche ottima idea il regista l'ha rubacchiata a The Times of Harvey Milk, il bel documentario di Rob Epstein del 1984. Ad esempio l'attacco sulla fine, e sulla dichiarazione del decesso di Milk presa da materiale di repertorio. Rispetto al documentario, Van Sant recupera invece la dimensione privata del personaggio e le sue complicate relazioni, trascurate da Epstein.

In più, può contare su ottime interpretazioni: Sean Penn ci ha dato uno dei pochi personaggi ad alto tasso di effeminatezza del tutto privi di moine, di luoghi comuni e di banalità, che il cinema abbia mai saputo produrre. È, in sé, un pezzo di grande militanza, che rinnega e fa piazza pulita di tutti gli stereotipi con cui gli omosessuali sono stati rappresentati per decenni, per altro in un momento in cui la comunità di Hollywood - come hanno dimostrato gli eventi recenti che hanno avuto luogo in California - rappresenta una delle avanguardie più solide nella rivendicazione dei nostri diritti e nell'affermazione della visibilità.

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