Much Ado About Nothing

9 febbraio 2014

Se James Franco passerà alla storia sarà solo per i selfie compulsivi e narcisisti che posta a piè sospinto su Facebook; è comunque più di quanto si può dire di Travis Mathews (che forse qualcuno ricorderà per I Want Your Love, ma se non è il vostro caso non sforzatevi, non ne vale davvero la pena). Alla storia in compenso è passato per vari motivi Cruising, un film chiave del cinema omosessuale, girato da William Friedkin quando era ancora un regista degno della massima considerazione. In caso contrario la comunità gay dell’epoca non avrebbe inscenato la sua celebre battaglia contro un’opera ritenuta a torto o a ragione infamante. La censura tagliò poi 40 minuti di scene oggi perdute girate all’interno del locale gay sadomaso in cui Al Pacino si infiltrava con crescente compiacimento.

Ora, tra un selfie e l’altro Franco ha la bella idea di girare un film su quei minuti scomparsi. Dico “bella” senza ironia: se ne poteva ricavare molto, sia che si volesse farne un documentario (il caso è di sicuro interesse e di sufficiente complessità da giustificare un lavoro di questo genere), sia che si volesse immaginarne una ricostruzione di finzione. Franco e Mathews optano per una via intermedia, una docufiction in cui si mischiano il backstage della lavorazione del nuovo film, finte aggiunte al backstage e la ricostruzione di qualcuno dei famigerati minuti perduti di Cruising. Ne esce un gran pasticcio in cui gli attori coinvolti esibiscono perplessità circa il progetto e il loro stesso coinvolgimento giustificandolo solo con il desiderio di lavorare con Franco, neanche si trattasse di Pasolini (il tutto mi ricorda molto quanto accadeva sul set di Salò). In realtà tutto serve solo a gonfiare i buoni propositi esposti con puerile fragilità dallo stesso Franco (cappellino in testa come il Pacino di Looking for Richard), cosa per cui tutti fingono di non sapere bene dove voglia andare a parare il film. Problema che ha anche lo spettatore, senza bisogno di fingere.

La ricostruzione delle scene perdute di Cruising non ha nulla di filologico: non vi è nessuna ricerca, nemmeno il tentativo di imitare l’originale, visto che dalla pellicola si passa a un digitale slavato e montato con soluzioni che dell’impasto tutto particolare degli anni Ottanta non hanno nulla.

Come fantasia, Interior. Leather Bar lascia indifferenti proprio perché il legame con il film di Friedkin e con ciò che ha rappresentato è inconsistente: al più abbiamo una noiosissima discussione tra un fan di Pacino che dovrebbe interpretare Pacino (senza somigliargli) e l’attore più ignorante del nuovo millennio, che Pacino non sa quasi chi sia.

Lo stesso livello si registra nelle discussioni tra il novello Pacino e il suo amico Franco, il quale tenta di delucidare lo scopo del documentario: fare scandalo, infrangere l’ultimo tabù (il sesso gay, ma ci sarebbe da discutere su questo ingenuo prendere il sadomasochismo leather per “il” sesso gay) ricorrendo a scene hard senza però fare un porno, perché comunque si racconta una storia. Giuro, testuali parole.

Cruising appare allora un semplice pretesto come un altro per incastonare sgraziate immagini porno (siamo al livello zoomate su natiche al vento: non saprei immaginare niente di più inelegante, e parlo delle zoomate, non delle natiche al vento). Allo stesso modo, l’aspetto documentario serve solo a creare un alibi, fornendo l’occasione a Franco di farsi messia di una verità stracotta, il cui vangelo è un decostruzionismo versione Rider’s Digest proferito come se, abbagliato sulla via di Damasco, non si fosse accorto che il sentiero era già ben tracciato, anzi ormai un’autostrada a più corsie.

Inoltre sono almeno quindici anni che il cinema istituzionale rompe tabù usando scene hard con crescente sfacciataggine; sono quarant’anni che i lungometraggi porno raccontano anche storie, quindi raccontare storie non significa di per sé non fare porno; sono quarant’anni e qualcosa di più che i gay lottano per se stessi (e parlo solo dell’ultima ondata del movimento) senza bisogno che due (sedicenti) etero ritengano di doversi fare carico dei loro peccati, e non saprei dire se è più irritante sentirli fare i complimenti (stile fag-hag con desiderio di maternità inespresso) a una coppia gay perché insospettabilmente tenera o vederli arruffare il volto di fronte a una scena di sesso. Ad ogni modo il voyeurismo di questi due etero-curiosi poteva essere sfogato anche senza tutta questa impalcatura fasulla.

A Franco consiglierei di passare meno tempo a fotografarsi l’ombelico, così da averne un po’ da investire in buone letture (almeno le basi di critica femminista, gender e queer, ma anche qualcosa sul cinema non guasterebbe, porno incluso), in modo da avere almeno i rudimenti necessari a dare quel tanto di struttura ai suoi pensieri e sforzarsi, se ci sarà una prossima volta, di essere un po’ meno paternalista e naïf, perché l’acqua calda l’abbiamo scoperta da soli e da un po’ di tempo, né è credibile che un film simile possa sperare in un pubblico eterosessuale di ampiezza tale da dare un senso all’intera operazione. Va bene che al Festival di Berlino prendono tutto, ma non è un buon motivo per accontentarsi. E se si vuole fare un porno, non c’è bisogno di farla tanto lunga, ché ormai è più scontato e banale che girare i filmini delle vacanze, ed è senz’altro meno osceno che imporre i suddetti filmini agli altri.

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