recensione diMauro Fratta
Vivere senza malinconia...
Piersandro Pallavicini, autore che mi è da sempre molto simpatico, qui mette sulla scena uno squinternato quintetto di pensionati vigevanesi malmessi in salute ma ben provvisti di denaro: due coppie e un loro amico, vedovo, che gli altri portano con sé a Nizza in Jaguar per tirarlo un po' su. Cesare, il narratore, è un direttore editoriale in pensione: uno che è sempre vissuto nelle ore di lavoro fra uomini d'affari e gente dall'acuminato senso estetico, conversatori estrosi e persone importanti, mentre nella vita privata ha passato l'intera esistenza vicino ad una moglie malata di bigottismo, ora stizzosa ora abulica, e adesso, tornato nella natia Vigevano, s'è dovuto fare amico di borghesucci della grassa provincia lombarda, soci del locale Rotary, villici arricchiti con tutto il codazzo di mogli scipite o isteriche, figli scimuniti e arroganti, barzellette sporche, omofobia a piovere e intercalare in dialetto.
L'eroe del racconto è un po' come tutti gli eroi dei libri che scrive il Nostro: ama la buona cucina, i buoni vini, la buona conversazione, i libri e le Jaguar; ma d'altra parte è anche un uomo solo: con l'unico suo vero amico, l'ex-giovane scrittore Leo Meyer, elegante intellettuale gay blasé e insolente, da qualche anno è intervenuta una tragica rottura; il fantasma di Leo adesso lo tormenta: ma, in qualche modo, il protagonista è riuscito a rifarsi una passabile compagnia coi suoi coetanei volgarucci e acciaccati.
Dietro lo scintillare delle battute e delle osservazioni caustiche del narratore traspare un destino magari poco invidiabile, ma più simile alla vita vera rispetto a tante altre invenzioni letterarie: le persone che emergono per intelligenza, lucidità o senso estetico rappresentano un’eccezione costante guardata con noia o indifferenza dal prossimo; riescono a star davvero bene con gli altri solo se s'imbattono in personalità eccezionali simili a loro: però a volte poi accade che tra capibranco si faccia a cozzi; e allora tocca adattarsi alla compagnia dei "normali", facendo di necessità virtù, il che, in realtà, non è sempre una disgrazia: i vecchietti danarosi e rozzi della provincia lombarda non assicurano una conversazione acuta e sottile, ma perlomeno riescono di buona compagnia e sanno anche far ridere, benché con facezie di lana grossa e non sempre volontariamente.
Alla vita e ai suoi minimi piaceri il protagonista si aggrappa con le unghie, cercando di superare anche i sintomi sempre più inquietanti e devastanti della sua sclerosi progressiva: e il suo saltellare agrodolce fra strambe o folli figure d'una Nizza vagamente spettrale scorre incalzando adescatore. Il romanzo poi trabocca di letteratura, citata direttamente o indirettamente: baluginano a tratti anche i fantasmi della narrativa degli anni Ottanta, che per Pallavicini, come per me, spirano aromi di giovinezza; e c'è perfino un inedito di Frederic Prokosch, ovviamente inventato da Pallavicini, che ha lo steso titolo del romanzo.
In conclusione, sento aleggiare qui l’idea che, mentre la vita si liquefà dietro di noi anodina e grigia, i libri restino compagni fedeli, magari non capaci di sostituire gli uomini, ma in grado, da buoni amici, di aiutarci a voler bene perfino alle pochezze del nostro prossimo, alle sue debolezze, a ciò che vi si ravvisi di sciapo e manchevole, cui donano grazia di luce o sapore ispirando qualche tocco d’indulgenza, d’ironia o di sorriso.
La scrittura di Piersandro Pallavicini, per giunta, mi ha molto divertito: si dirà che il suo umorismo è un po’ ripetitivo, che i personaggi sono raffigurati troppo in caricatura; ma il pregio del romanzo sta proprio nel saper nascondere con garbo i cali occasionali d’ispirazione; e poi, laudabunt alii claram Rhodon aut Mytilenen: a me piace Romanzo per signora.