Cinema gay, l'ennesimo genere

27 novembre 2015

Ci sono ovviamente diversi livelli di scrittura, e diversi livelli di pubblico. Se chi scrive dovrebbe adeguare la propria pagina al suo lettore ideale, il lettore dal canto suo deve saper chiedere a un testo quello che il testo può dargli, e nulla più. A un testo giornalistico, non importa se poi tradisca ambizioni ulteriori, non si può chiedere ciò che si chiede a un saggio accademico, su questo c’è poco da obiettare.

Tuttavia, né gli studiosi né i giornalisti dovrebbero scendere mai sotto una certa soglia di rigore minimo. A un giornalista posso anche rinunciare di chiedere idee brillanti, sguardi rivoluzionari, stimoli che sappiano aprire nuove piste di ricerca (e non sono certo tratti che mi aspettavo di trovare qui), in favore di quadri d’insieme divulgativi, ma non posso rinunciare a chiedergli precisione, esattezza delle informazioni, senso compiuto di quanto va scrivendo. Altrimenti un testo non risulta solo inutile, ma anche dannoso. La divulgazione bisogna saperla fare e chi la intraprende dovrebbe sentire una certa responsabilità. Soprattutto in un ambito, come la ricerca storica sulla cultura omosessuale in Italia, che ancora necessita di molto lavoro.

Apro dunque questo libro sulle pagine relative al cinema gay italiano, per sondarne il livello, e leggo, nel giro di sole quattro pagine, che in Costa azzurra «un produttore gay tenta di sedurre Alberto Sordi», che ne I complessi «si vede la prima sauna gay del cinema italiano», che è «solo nel ’68, grazie alla rivoluzione culturale e sessuale, che il cinema gay irrompe sugli schermi con tutto il suo potere liberatorio e trasgressivo» (segue esempio di Teorema), che nel 1972 nasce il FUORI!, che Dimenticare Venezia è «il primo film italiano contemporaneamente gay e lesbico». Ebbene, Sordi in Costa Azzurra è sedotto da un regista e non da un produttore (il che ha un senso preciso, tanto più che si vuole evidentemente prendere di mira una figura precisa); il FUORI! nasce nel 1971 e non nel 1972 (e no, non è la stessa cosa); ne I complessi non c’è alcuna sauna (tantomeno ci sono i «clienti» di cui parla Schinardi), bensì una festa in una villa fuori mano chiaramente esemplata sul modello dei bresciani “balletti verdi” del 1960 (e ignorare i balletti verdi, a chiunque scriva di cose gay di quegli anni richiede atto di contrizione e almeno dodici avemmarie e quindici paternostri); gay e lesbiche erano comparse insieme, anche in Italia, ben prima di Dimenticare Venezia (e non mi dilungo qui sulla pericolosità insita nell'annunciare le "prime volte"). Senza contare che pensare che l’omosessualità irrompa sui nostri schermi solo nel ’68 per la rivoluzione culturale e sessuale (lasciando perdere la contestualizzazione che esigerebbe ben altra articolazione, anche nel contesto rapido di un testo di divulgazione) è un grosso errore, e avrei ovviamente da dire qualcosa anche sul prendere Pasolini per un esempio semplice semplice di cineasta gay…

Ci sono molti luoghi comuni circolanti sulla storia del rapporto tra cinema italiano e omosessualità, e qui si ritrovano tutti. Ma anche concesso a Schinardi il diritto di ripeterli anziché elaborarli, non gli si può concedere il lusso di non sapere di cosa sta parlando, ovvero di non conoscere i film di cui scrive (o di ricordarli malissimo, che è lo stesso).

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