Una riflessione teologica

10 dicembre 2015

Recensione a cura di Gianni Geraci.

Era il 1983 quando la casa editrice che il Gruppo Abele aveva fondato pochi anni prima ha pubblicato la traduzione di un libro che il frate cappuccino olandese Hermann Van de Spijker aveva dedicato a un tema di cui, allora, si parlava molto poco dentro e fuori dalla Chiesa. Fin dal titolo: Omotropia. Un discorso diverso sull’omosessualità era chiaro che questo teologo aveva come obiettivo quello di dare al lettore alcuni strumenti per superare i paradigmi tradizionali che portavano inevitabilmente a una condanna dell’omosessualità.

In realtà la prima edizione, in tedesco, del libro, risale al 1972 e questo particolare fa del libro di Van de Spijker forse il primo tentativo di riflessione inclusiva che un teologo cattolico faceva sull’omosessualità.

Lo sforzo innovativo era veramente importante e toccava molti aspetti dell’argomento che veniva affrontato. La stessa terminologia utilizzata fino ad allora era oggetto di una critica molto puntuale e appropriata: dopo parecchi decenni si mettevano in evidenza i limiti del termine “omosessualità”, che rischiava di ridurre una realtà ricca e articolata come l’attrazione esclusiva e prevalente per le persone del proprio sesso ai momenti di intimità sessuale. Una critica in questo senso non era nuova: già prima della seconda guerra mondiale in Germania, alcuni autori avevano introdotto il termine “omofilia” che ha poi avuto un discreto successo negli anni cinquanta con la nascita, soprattutto in Francia, di gruppi di “omofili” che, nel tentativo di rendere accettabile la loro vita alla società, sentirono il bisogno di distogliere l’attenzione dei loro interlocutori dall’aspetto che loro ritenevano più imbarazzante: quello sessuale.

E’ nel tentativo di tener conto di queste esigenze contrastanti che Van de Spijker inventa, nel 1966, il termine “omotropia” che, partendo dal termine greco "tròpos" che significa “direzione, tendenza, verso” cerca di non esasperare, ma nemmeno di sminuire l’importanza che l’intimità sessuale ha nella vita delle persone omosessuali.

Anche se ispirato a una visione senz’altro equilibrata del fenomeno, questa proposta di modifica della terminologia non ha avuto successo, tant’è che quasi nessun altro autore ha utilizzato in seguito il termine “omotropia” per definire l’omosessualità. Sarebbe un errore bollare però come sterile questo tentativo di arrivare a una terminologia nuova, la confusione terminologica che regna in questi ultimi anni lo dimostra. Basti pensare al fatto che i pride italiani del 2015 hanno eliminato dai loro manifesti termini come gay, come lesbica o come omosessuale, per annacquarli in un generico “human pride” organizzato e proposto però da un movimento che, per comprendere la babele di identità che vuole rappresentare, inanella ben sette iniziali, nell’acronimo che lo segue (LGBTQIA).

Quello terminologico era però solo uno degli aspetti e non certo il più importante, tra quelli toccati dal libro di Van de Spijker, che è, e resta un teologo e che quindi ha nell’introduzione di una prospettiva teologica nuova il vero obiettivo del suo libro.

La tradizione a cui deve fare riferimento non apre molte prospettive: dalle condanne dell’Antico testamento ai testi di teologia di Alfonso Maria de Liguori, la condanna degli atti omosessuali è unanime. Ma è a questo punto che interviene la riflessione del teologo contemporaneo, quando si chiede se gli autori dei testi che condannavano l’omosessualità avevano ben presente cosa fosse l’omosessualità stessa, o ancora meglio, cosa fosse quell’espressione della natura umana che lui definisce “omotropia”. In quest’ottica Van de Spijker riprende quanto di nuovo le scienze umane del XX secolo hanno detto sulla sessualità umana e fissa due punti fermi importanti: l’accettazione di sé che deve essere il punto di partenza di qualunque percorso pastorale da proporre alle persone omosessuali (con il rifiuto di tutte quelle terapie riparative dell’orientamento sessuale che, negli anni settanta, erano ancora la regola); l’idea che l’omosessualità (o meglio, per usare il lessico di Van de Spijker l’omotropia) sia una vera e propria vocazione cristiana.

Adesso affermazioni del genere fanno poca impressione, ma quando il libro è apparso erano rivoluzionarie: don Leandro Rossi, un teologo moralista che ha fatto dell’ascolto delle persone omosessuali una delle sue attività principali, mi aveva raccontato che negli anni settanta lui aveva scritto che gli omosessuali non andavano considerati dei viziosi, ma dei malati e che, per questo, era stato sommerso di lettere da parte di persone omosessuali che lo ringraziavano. I tempi sono cambiati e quelle che sembravano aperture rivoluzionarie per tutto il cristianesimo, non sono più nemmeno oggetto di discussione nelle chiese protestanti più aperte, mentre godono di un certo consenso anche nelle chiese che, come la Chiesa cattolica, su certi argomenti sono praticamente rimaste bloccate.

Riproporre Omotropia. Un discorso diverso sull’omosessualità nel 2015 rischiava di essere un mero esercizio storiografico che, inquadrato nell’epoca in cui è uscito, testimoniava il coraggio e la lucidità del suo autore.

A ridare attualità al nuovo libro di Van de Spijker non è però la prima parte (quella che ripropone il testo pubblicato nel 1972), ma la seconda parte, che raccoglie i contributi che, nel corso degli anni, lo stesso Van de Spijker ha scritto sul tema della comprensione e dell’accoglienza pastorale delle persone omosessuali (o come dice lui “omotrope).

Qui di stimoli interessanti ce ne sono più d’uno e credo valga la pena elencarli in modo schematico.

Interessante è l’ammissione che l’omofobia segna la reazione tradizionale che, all’interno della Chiesa cattolica, c’è nei confronti dell’omosessualità e ancora più interessante è la dimostrazione del fatto che, comunque la si prenda, non è quella ispirata dall’omofobia la reazione adeguata al tema dell’omosessualità.

Altrettanto interessante è la ricca riflessione sulla “normalità” delle persone omosessuali, che sono chiamate a cercare, nella loro vita, una “normalità che vada al di là delle norme” tradizionali.

Ricchissima è l’analisi del ventaglio di reazioni che, a livello ecclesiale, ci sono state e ci sono quando si parla di omosessualità. Un’analisi che è particolarmente preziosa in un momento come quello che viviamo a livello ecclesiale, dopo che il Sinodo sulla famiglia di quest’anno ha preso atto che su certi argomenti si possono anche avere idee diverse (e anche se è vero che tra questi argomenti non è stato citato l’atteggiamento da tenere nei confronti delle persone omosessuali, è altrettanto vero che è quest’ultimo un argomento che presenta molte analogie con gli argomenti su cui il Sinodo è intervenuto).

C’è poi una articolata riflessione su una teologia pastorale con le persone omosessuali capace di tener conto non solo della secolare tradizione teologica cattolica, ma anche dei risultati sorprendenti a cui sono approdate le scienze umane negli ultimi decenni, risultati che pongono alla teologia domande nuove che, per forza di cose, hanno bisogno di risposte nuove.

Ma il contributo che a mio avviso risulta più originale, perché legato all’attualità costituita dall’accostamento che molti cattolici tradizionalisti fanno tra riflessione sul “gender” e riconoscimento del valore dell’esperienza omosessuale è quello fatto al Capitolo VI, intitolato significativamente: Per una sessualità che renda femminili le donne, maschili gli uomini e tutti insieme “esseri umani”.

Facendo proprio il linguaggio di chi contestava, nella seconda metà degli anni novanta gli studi sul gender, padre Van de Spijker, mettendo al primo posto l’esperienza specifica di ogni persona, ribadisce il diritto/dovere che ciascuno ha di realizzare nella propria vita quell’idea di relazione che fa parte della sua specifica natura e, per farlo, da teologo qual è, prende lo spunto da un racconto biblico che vale la pena di essere ricordato qui nel dettaglio.

Si tratta della storia di Elkana, un uomo che aveva due mogli (1 Sam 1,1-20): una, Pennina, il cui nome rimanda al corallo e che come un corallo si moltiplica e cresce dando a Elkana figli e figlie; l’altra, Anna, che invece è sterile. Il testo è chiaro nel riferire quello che Elkana dona a Pennina e ai suoi figli in occasione della tradizionale festa che impone la salita a Silo per il sacrificio. Diventa invece ambiguo quando parla del dono riservato ad Anna: alcuni manoscritti dicono che: “Ad Anna diede una sola parte poiché non aveva figli e tuttavia egli amava Anna”; altri invece dicono che: “Ad Anna diede una parte doppia poiché egli amava Anna sebbene il Signore avesse chiuso il suo grembo”.

Nel contrasto tra queste due tradizioni Van de Spijker legge il dilemma che vive lo stesso popolo d’Israele: da un lato cosciente dell’importanza della generazione dei figli per la prosperità del popolo stesso e per l’osservanza del comandamento divino che invita il suo popolo a crescere a moltiplicarsi (Gen 1,9), dall’altro attento a difendere chi non può ottemperare a quel comandamento dal disprezzo di chi vive la possibilità di generare come un motivo d’orgoglio che indurisce il cuore (Pennina, infatti, dice il testo biblico: “disprezzava Anna” e usava i figli che Dio le donava come mezzo per metterla in ombra agli occhi del comune marito).

Da questa vicenda il teologo Van de Spijker ricava un insegnamento importante: ciascuno di noi può impegnare solo quello che ha e la sua piena umanizzazione è più importante delle aspettative della società e della chiesa. Elkana, il cui nome significa “Dio ha preso in custodia” questo lo capisce e dice ad Anna, la moglie sterile, parole che Pennina, la moglie feconda, non sentirà mai: “Non sono forse io, per te, meglio di dieci figli?” (1 Sam 1,8).

Lo stesso atteggiamento dovrebbe avere una Chiesa capace di cogliere il senso profondo di questo racconto biblico: a chi, per qualche motivo, è escluso delle modalità tradizionali che permettono di essere fecondi, dovrebbe dire che quella che conta non è l’adesione a un modello astratto, ma la piena realizzazione della vocazione specifica che ciascuno ha.

Quella vocazione che Van de Spijker chiama “omotropia” ed “eterotropia”.

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