Napoli... serenata calibro 9

19 febbraio 2016

Con un plateale montaggio ripetitivo dell'azione e uno zinzino di ralenti, Mario Merola irrompe nello stanzone dove gli assassini di suo figlio (e anche di sua moglie, ma la cosa apparentemente non fa specie a nessuno) si sono installati per gozzovigliare e inebetirsi con l'onnipresente whisky J&B. Merola comprime il suo volto tuberoso e spara qualche centinaio di volte contro i malfattori, non premurandosi di prendere la mira così da protrarre il più a lungo possibile questo epico momento. Tanto i proiettili finiranno solo quando i mariuoli saranno tutti morti, meno uno: il villain per eccellenza (il cui promettente nome di battaglia è Totonno 'o Pazzo). Con lui il regolamento di conti dovrà essere effettuato a parte, in grande stile.

Se il riferimento a Mario Merola e al J&B non avesse guastato la sorpresa, si potrebbe pensare che tutto ciò che fin qui ho descritto appartenga a un film – chessò – di John Woo, ma non è così: ci troviamo di fronte una pellicola di tutt'altra scuola, con meno stile ma più core.

Napoli... serenata calibro 9, diretto dallo spiccio Alfonso Brescia, è un assemblaggio decentemente ritmato di elementi disparati, amalgamati da un folklorismo onnipervasivo, un auto-compiacimento partenopeo che allo spettatore non autoctono può sembrare quasi auto-razzismo.

Ecco la lista degli ingredienti:

  • amori, tradimenti e vendette approvate dalla giustizia divina ma non da quella umana;

  • amicizie “interreligiose” tra commissari comprensivi e malviventi onorati;

  • onesta omertà della cittadinanza tutta;

  • inseguimenti (diretti approssimativamente ma con energia) via terra e via mare, acrobazie generose ed esplosioni fatte al risparmio;

  • esibizioni canore circoscritte nel tempo (Merola fa vibrare il torace all'inizio del film per celebrare la prima comunione del figlio) ma lì per lì interminabili;

  • vertici di patetismo (uno scugnizzo ovviamente astuto come una faina e precocissimo sostituisce, nel cuore del Mahatma Merola, il figlioletto poc'anzi mitragliato) risolti in modo quasi sobrio;

  • siparietti comici lasciati al caso – un caso veramente poco ispirato – tra i due fool di turno, l'appuntato Capezzuto e l'appuntato Esposito (Lucio Montanaro e Lucio Crocitti).

All'interno della voce riguardante l'esigua dimensione buffonesca del film va segnalata anche la presenza de La Tigre di Forcella, un “femminiello” esibizionista e chiassoso interpretato logicamente da Leopoldo Mastelloni; questo personaggio, inutile ma posto in bell'evidenza, appartiene alla stirpe dei travestiti inseriti a viva forza nei momenti morti dei poliziotteschi, per via del potenziale ludico ad essi “connaturato”, visto che i travestiti (meglio se sboccati e spennacchiati) costituiscono un momento di sollievo in mezzo alla spossante violenza di un mondo di uomini.

Nei pochi minuti in cui appare, La Tigre trova il tempo di: 1) ammirare la maschia bellezza del commissario, impersonato dal minimale Nunzio Gallo; 2) spernacchiare gli incompetenti appuntati, senza che questi osino aprir bocca; 3) constatare amaramente che, mentre tutti i galantuomini passano la vita al commissariato, i veri mariuoli sono liberi come l'aria.

Infine, a grande richiesta di un pubblico di pregiudicati, La Tigre si produce in una frastornante imitazione della diva della canzone napoletana Angela Luce, usando come palco le scrivanie dei passacarte del commissariato. Insomma, questo unico, marginale personaggio si fa cantore di tutto il retroterra culturale (ideologico e musicale) della cine-sceneggiata, un genere povero e non bello, ma a suo modo forzuto.

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