La sfida di Harlan

19 marzo 2017

A metà degli anni ’70 Patricia Nell Warren aveva rifiutato di scrivere il sequel di La corsa di Billy, che i suoi editori volevano incentrato sul figlio avuto da Harlan con il seme di Billy congelato prima delle fatali olimpiadi di Montreal. L’autrice avrebbe dovuto immaginare la società americana (e l’avanzamento della causa gay) di lì a vent’anni, ed era cosa ben diversa dal fantasticare su un futuro prossimo di un paio d’anni come aveva fatto nel primo romanzo. Per limitarsi all’ovvio, non avrebbe mai potuto immaginare l’avvento dell’Aids: qualsiasi cosa avesse scritto, sarebbe stata inevitabilmente lontana da ciò che effettivamente è accaduto.

Nel 1994 il sequel è invece finalmente giunto in porto come cronaca del quindicennio precedente, dal momento che riprende i fili della storia da dove si erano interrotti, e cioè dal 1976. La formula, inoltre, è la medesima del romanzo precedente. E cioè, anziché concentrarsi sul figlio di Billy (di cui si prende cura la madre lesbica e che si limita a fare capolino di tanto in tanto nel racconto), segue le vicende sentimentali del focoso Harlan, per cui gli anni passano ma non le voglie, e le colloca di nuovo sullo sfondo della storia gay americana. Se dunque nel 1968 Harlan era a Stonewall proprio quel giorno fatale, qui si evoca l’assassino di Harvey Milk e l’Aids gioca inevitabilmente un ruolo di primo piano. Harlan ne esce indenne ma l'epidemia in compenso fa strage delle sue conoscenze, nonché di molti dei sopravvissuti del primo romanzo.

La cronaca però è proprio il limite di questo La sfida di Harlan. Si sente infatti la mancanza del piano più intrigante della Corsa di Billy, e cioè la fantasia a occhi aperti sul possibile futuro della storia gay. Qui Warren si limita a intersecare ciò che tutti conosciamo: il gioco non manca di episodica suggestione, ma è inevitabilmente più scontato.

A compensare ci prova l’intreccio giallo, poiché si scopre che Billy non era stato ucciso da un cecchino, ma da due. Quindi ce n’è ancora uno in libertà che prende di mira proprio Harlan e la sua compagnia, e particolarmente gli altri due atleti che con Billy avevano dato avvio al primo romanzo, cioè Jacques (che, terrorizzato, mette su famiglia) e il tribolato Vince, innamorato di Harlan sin dal primo giorno ma virtuosamente fattosi da parte per non intralciare l’amico Billy. I due hanno ora tutto l’agio di recuperare il tempo perduto.

In vent’anni lo stile di Warren non è cambiato di una virgola, come se anziché nel 1994 il sequel l’avesse scritto davvero nel 1975: i personaggi sono semplici tipi caratterizzati dalle loro azioni e da uno o due aspetti caratteriali scolpiti senza troppa finezza (come nel caso del tribolato reduce Chino); le vicende sentimentali sono condite con la medesima dose di sesso esplicito con annesso feticismo per le secrezioni corporee; il narratore è sempre Harlan; la maggior parte dei personaggi è ereditata dal romanzo precedente e non conosce evoluzione nonostante il lungo lasso di tempo che si suppone passare (persino nel caso di Vince, che dovrebbe transitare attraverso una profonda crisi esistenziale, mancano le sfumature che ne rendano credibili i cambiamenti interiori).

La componente thriller è abbastanza riuscita e ha anche un inatteso colpo di scena finale, ma non basta a colmare l’assenza degli aspetti più convincenti del primo romanzo (non solo la fantapolitica ma anche il devastante melodramma luttuoso dell’ultima parte di La corsa di Billy). Alla lunga irrita anche un po’ l’ostentato disinteresse con cui Warren riprende dettagli o episodi già narrati nel primo romanzo senza curarsi di modificarli in modo talvolta significativo.

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