recensione diMauro Giori
La corsa di Billy
Patricia Nell Warren ha oggi ottant’anni. Quando scrisse La corsa di Billy ne aveva la metà, era ancora velata e sposata, e certo non si aspettava il successo di pubblico che le ha arriso. Un successo tale che le venne chiesto subito di mettere in cantiere un sequel, Billy’s Boy, in cui si sarebbero dovute narrare le vicende del figlio (concepito in provetta) dell’eroe eponimo. Warren rifiutò perché, fatti due conti, avrebbe dovuto ambientarlo negli anni Novanta. Sarebbe stato insomma un romanzo di fantascienza.
Ma in realtà già La corsa di Billy ci va vicino, perché mano a mano che si allontana dal presente in cui scrive l’autrice prende la strada della fantastoria, sebbene al fondo rimanga nella sostanza un romanzo rosa. A tratti sfacciato, come ogni romanzo rosa degno di questo nome deve saper essere, con i suoi personaggi in fondo tutti simili e senza gran spessore, ma perfettamente funzionali a muovere il racconto. La ricetta rende comprensibile il successo riscosso negli anni ’70, a prescindere da una scrittura di artigiana medietà (di cui l’edizione italiana offre una traduzione di servizio), ma risulta abbastanza efficace da rendere godibile una rilettura del romanzo anche oggi.
La corsa di Billy si snoda su tre piani. Il primo è la vicenda privata di Harlan, un allenatore di mezza età. Cioè in sostanza un professore di ginnastica, ma nei college americani i professori di ginnastica sono una cosa seria. La sua storia si incrocia con quella di un corridore che ha la metà dei suoi anni e il doppio dei suoi ormoni in circolo (e già Harlan ne ha molti). Il corridore si chiama Billy, è una promessa dell’atletica e insieme a due coetanei di pari estroversione ormonale è stato espulso da un college molto prestigioso: la ragione è che sono tutti e tre gay. Come pure Harlan, motivo per cui vanno in gruppo a chiedergli aiuto per essere rimessi in pista, metaforicamente e letteralmente, in vista delle prossime olimpiadi di Montreal. Tra gli statuari Harlan e Billy è ovviamente amore a prima vista. Warren sforna così anzitutto una storia sentimentale di fiabesca perfezione, cui aggiunge pagine di sesso a tratti roventi, sebbene al lettore ideale si chieda un’inclinazione al feticismo della sudorazione che non credo molto diffuso: qui è tutto uno scrutare riccioli di pelo inzuppati di umori corporei; un avvinghiarsi nonostante magliette madide dopo interminabili sedute di corsa; e persino un soppesare la specifica sapidità di quanto le ghiandole sudoripare dell’uno e dell’altro secernono… Ma la colpa è di nuovo dell’amore: quello tra Billy e Harlan è tale che quando il desiderio li coglie non si prendono nemmeno il tempo di farsi una doccia.
Il secondo piano è di carattere storico. Warren ambienta il romanzo sullo sfondo delle vicende cruciali della storia gay di quegli anni. Anche a costo di forzare un po’ la mano agli eventi, ad esempio per infilare Harlan proprio nel mezzo della rivolta di Stonewall. Senza contare che di tanto in tanto mette il suo professore di ginnastica a riflettere con piglio persino teorico su politica, società, diritti e omosessualità. Ma occorre riconoscere che Harlan a suo modo può vantare una conoscenza di prima mano dell’intera comunità gay della costa atlantica: nei suoi anni di crisi era infatti stato uno dei prostituti più richiesti di New York.
Il terzo piano è appunto quella della fantapolitica. Senza darlo troppo a vedere, Warren un po’ alla volta si lascia andare a una fuga nella fantasia più sfrenata, inanellando battaglie per i diritti gay di inusitata entità per l’epoca, quali solo con generosa dose di speranza potevano essere immaginate. Un sogno a occhi aperti di pubblica affermazione, insomma, con giornali, avvocati, televisione e politici che non sembrano avere nient’altro di cui occuparsi che della causa gay. Soprattutto, Warren fa di Billy un eroe, con il suo coming out che si porta Harlan a ruota con tanto di matrimonio pubblico, e poi addirittura un martire alla pari di Martin Luther King o John Fitzgerald Kennedy (i paragoni sono istituiti nel romanzo). L’autrice ha raccontato molte volte che l’idea le era venuta dalla confessione di un giovane che aveva dovuto rinunciare alle olimpiadi per fare coming out. L’intento era dunque quello di riscrivere la vicenda di questo ragazzo immaginando che non fosse costretto ad abbandonare il suo sogno agonistico per poter essere se stesso. Grande appassionata di corsa, Warren poteva così prestare qualcosa di sé ai due protagonisti e piantare la sua fantasia di orgoglio omosessuale nel cuore di uno dei regni più conservatori della maschilità tradizionale, lo sport.
Se poi siete tra quei miscredenti che rifiutano di pensare che ogni giovane americano sia fisicamente perfetto, come accade qui (e nei porno), o che ogni giovane americano abbia sempre voglia di andare a letto, come qui (e nei porno), o che se uno decide che vuole andare alle olimpiadi ci va anche se ha tutto il mondo contro, come qui (meno nei porno, mi pare), sarete comunque costretti a spargere calde lacrime di espiazione nelle ultime quaranta pagine, perché se il piano intermedio è un po’ fragile, gli altri due sono piuttosto efficaci. Il melodramma, del resto, vince sempre, ogni causa ha bisogno di martiri e ogni pubblico di una misurata dose di fantasticheria. Anche politica.