Violenza in un carcere femminile

10 aprile 2017

Violenza in un carcere femminile di Bruno Mattei è uno di quei film che si fanno benvolere urlando ai quattro venti la propria appartenenza alla serie Z (o Z bis). Come nel caso di molti altri esemplari del genere women in prison, gli sceneggiatori Ambrogio Molteni e Olivier Lefait sono imputabili di riciclaggio di battute usurate, a partire dal primo intervento di una delle tre ragazze tradotte in carcere all'inizio del film: «Su con la vita, moretta! Là dove andiamo ne avrai di tempo per pensare». Cosa che peraltro non corrisponde neanche al vero, perché la moretta in questione (Laura Gemser) non avrà un attimo di respiro in gattabuia, impegnata come sarà a lottare tra gli escrementi e a contrastare gli assalti dei topi.

La Gemser – antenata dei giornalisti autolesionisti di Vice che mangiano solo Nutella per una settimana o che si infiltrano nei famigerati festini delle confraternite dei college americani – interpreta ancora una volta la fotoreporter Emanuelle, la quale si imbuca nel turpe penitenziario di Santa Caterina (?) per descrivere le brutalità in esso commesse, ovviamente senza avvisare nessuno della propria balzana intenzione. Pare tra l'altro che lavori per Amnesty International, nome che la direttrice del carcere deturpa in un empito di disprezzo.

In carcere Emanuelle assiste a un repertorio spropositato di abusi, col consueto sottofondo di urla strazianti delle detenute a qualsiasi ora del giorno. Anche le attività sessuali saffiche, che per esempio in Prigione di donne di Brunello Rondi rappresentavano un momento liberatorio e solidale, in questo film di Mattei sono sotto il segno della degradazione: una carcerata infida e spiona, oltre che debitamente mascolina nell'aspetto, ha addomesticato una tossicodipendente rincitrullita. Le due pomiciano su richiesta della più feroce delle guardiane, interpretata da una Franca Stoppi davvero magnetica, seppure in un'accezione decisamente scult. Frattanto – in un'altra cella – due detenute si lasciano ispirare dai gemiti di piacere di questa coppia, che però viene tempestata da una scarica di manganellate dalla guardiana medesima giusto un attimo prima dell'orgasmo.

L'abbinamento lesbismo/bipolarismo è comunque ordinaria amministrazione; ben più gratificante è l'apparizione del gay per antonomasia del cinema di genere italiano, il Principe Franco Caracciolo, impegnato in un ruolo speculare a quello sostenuto sempre nel 1982 nella commedia Più bello di così si muore: qui Caracciolo interpretava un travestito che usciva di galera tutto gongolante per le attenzioni ricevute dai compagni di cella. In Violenza in un carcere femminile ci viene proposta “l'altra faccia della medaglia”: Caracciolo (flebilmente doppiato) è Leandro, un detenuto che un giorno sì e uno sì è in infermeria a farsi medicare a causa dell'eccessiva brutalità dei suoi “amanti”, a cui non sa mai dire di no. «È che mi prendono sempre dal lato sentimentale...» spiega languido al dottore (Gabriele Tinti), il quale ribatte compassionevole: «E tu la prossima volta cambia lato. Se succede un'altra volta ti faccio trasferire nel reparto femminile».

Caracciolo/Leandro ha un'autentica scena madre verso la metà del film, degna di un martirologio: l'amante sciroccata della spiona si spoglia davanti a una finestra, provocando i famelici prigionieri del reparto maschile. Leandro – a cui la solitudine emotiva ha evidentemente dato alla testa – si sente trascurato e comincia a picchiettare istericamente sul torace dei detenuti implorando: «Guardate me! Guardate me!». I detenuti dopo un po' si stufano e lo massacrano: Leandro – si intuisce – viene sodomizzato a morte, spirando sotto lo sguardo malinconico del dottore.

Quando Leandro esprime il timore di finire all'inferno, il dottore – con fare evangelico – gli spiega «Tu il giorno in cui incontrerai Cristo potrai guardarlo senza abbassare gli occhi: tu il tuo inferno lo hai già avuto qui». La scena non è tanto involontariamente comica, quanto piuttosto così antiestetica da rasentare il grottesco, con Caracciolo che si contorce per l'emorragia interna (forse in modo simile alla sua celebre parodia della morte di Violetta Valery) mentre Gabriele Tinti lo fissa con l'aria di chi sta parlando per ispirazione divina, senza peraltro far niente per salvarlo.

Questa situazione riassume la più perniciosa abitudine dei film d'exploitation, cioè di appropriarsi di tematiche importanti e delicate per il gusto di farle franare nel ridicolo.

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