recensione diMauro Giori
Taekwondo
L’arte della variazione ha una lunga e pregiatissima storia, interessante per molti motivi. Uno è il confine sottile che separa la riscrittura dal plagio, anche quando l’autore sia il medesimo. Taekwondo è in sostanza un auto-plagio di Hawaii, nonché l’ennesima variazione sul tema preferito di Berger, ovvero il corteggiamento procrastinato per tempi geologici e, soprattutto, ben oltre qualsiasi soglia di realistica credibilità se si considera quanto il contesto in cui è calato favorisca sistematicamente l’esibizione e il contatto dei corpi, invitando a concludere. Ma i dinosauri potrebbero estinguersi almeno due o tre volte prima che le labbra dei protagonisti di un film del regista argentino giungano finalmente a sfiorarsi.
Dunque, in Hawaii due formosi ragazzi in piena salute ormonale, spesso isolati e di norma quasi nudi, si squadravano, sfioravano, spiavano e sognavano per due ore, prima di arrivare a darsi un bacio. Fine. In Taekwondo abbiamo la stessa situazione, con due differenze: i ragazzi sono otto e prima del “nudi” si può togliere il “quasi”, che è un po' poco per compensare il fatto di non avere nulla di più da raccontare rispetto ai film precedenti.
Fernando, presunto etero, invita a casa sua per le vacanze Germán (ignorandone l’omosessualità), compagno della disciplina marziale di cui al titolo. In casa ci sono altri sei ospiti, tutti amici di lunga data di Fernando. La casa infatti è enorme, ed è anche piena di comodità, visto che era nientemeno che la spa di cui viveva il padre. Quindi i ragazzotti hanno a disposizione campi da tennis dove accalorarsi meglio nella già torrida estate sudamericana, solo per meglio spogliarsi in modo da fruire in coppie o in gruppi di piscine, vasche idromassaggio, saune, ecc. Come non bastasse il contesto, Berger non teme il ridicolo nello spingere le situazioni al limite, come quando Fernando si premura di far notare a Germán che ha finito le mutande pulite e quindi quella sera dormirà senza, nel letto accanto al suo… Per quanto sfacciate, le occasioni continuano a non essere colte e i protagonisti si ostinano a non spingersi oltre sguardi insistiti, prolungati sorrisi ammiccanti e pacche carezzevoli. Nel mentre, Berger si diverte in modo vistoso a estenuare l’inchiesta sull’orientamento sessuale altrui, idolatrando la figura centrale del suo cinema (l’etero curioso) e ironizzando abbondantemente sulla compulsione a parlare di omosessualità e di omosessuali tra chi si professa devoto alla causa della riproduzione della specie.
Dopo anni di pii desideri frustrati, il nudo è per Berger un giocattolo congeniale, ma ne fa uso solo per esasperare l’espressione del desiderio, la tensione sessuale e un po’ animalesca del corteggiamento, rendendo ancora più paradossali i ritardi nell’accettare ciò che i corpi generosamente offrono, come si incaricano di ricordarci costantemente le infinite inquadrature in dettaglio ad altezza vita (di solito con rigonfiamenti incontrollabili sotto i vestiti, quando ci sono). Non è raro che simili inquadrature si susseguano come fossero raccordate, come se cioè a guardarsi, spiarsi, studiarsi, fossero direttamente gli organi genitali. Berger arriverà a un film moraviano in cui saranno direttamente loro a parlarsi?
Nonostante quindi nulla sia lasciato all’immaginazione, e nonostante le infinite occasioni offerte dal caso e dalla malizia reciproca dei protagonisti, costoro impiegano ancora due ore per arrivare a darsi un bacio. Il fatto poi che il bacio metta come sempre fine anche alla vicenda non sembra aprire prospettive ottimistiche sull’amore, come se a contare fosse solo la conquista per la quale o non c’è un futuro o non vale la pena raccontarlo: giunti al bacio, sembra insomma dirci il cinema di Berger, il meglio è già passato.