recensione diDaniele Cenci
Partire
"Toutia", un nome senza senso: per i vecchi del porto evoca la Morte-ragno che a volte trascina negli abissi l'irrimediabile sconforto di chi fugge dal proprio paese in cerca di futuro.
Ed è proprio nei caffè in cui echeggia la canzone dell'annegato - "stella marina sospesa sullo stretto" - che Azel prende la decisione di abbandonare il Marocco, per divenire "un'ombra trasparente" che naviga sui flutti a vele spiegate.
Azel ha vent'anni e a Tangeri povertà e corruzione lo umiliano e gli prospettano ossessivamente un'unica ancora di salvezza: dall'altra parte del Mediterraneo, verso il miraggio della Spagna.
Partire, rinascere altrove, spiccare il volo, correre dal deserto al mare urlando la propria libertà sembra un destino ineludibile, ma è foriero di rischi, può costare il tradimento degli altri e di se stessi.
Azel, pur di evadere, intreccerà col fascinoso Miguel una relazione senza piacere, finchè lo specchio dell'avvenire s'infrangerà contro il suo pavido opportunismo.
In un mondo dove sembra esserci scampo solo nell'immaginazione, l'epopea corale di Ben Jelloun (coi suoi indimenticabili ritratti di donna) denuncia un microcosmo di esistenze clandestine dove la felicità non è mai dietro l'angolo.
Senza risparmiare i suoi strali contro le radici contorte della tradizione e gli stereotipi sessisti, ci accompagna nella dolorosa solitudine dell'emigrazione, "una sorta di discesa in un baratro, un tunnel di tenebre" in cui la realtà si deforma inesorabilmente: fino all'amaro sogno finale.