Cercando il paradiso perduto

29 agosto 2008

Nel 1978 fu presentato al Parlamento greco un progetto di legge relativo alla prevenzione delle malattie veneree che stabiliva una relazione diretta tra queste ultime e l'omosessalità.

Il movimento greco per la liberazione degli omosessuali, l'AKOE - in realtà formato da appena quattro gay, i quali vivevano e operavano a Parigi - rivolse in quell'occasione un appello di solidarietà a tutti gli intellettuali democratici (firmarono tra gli altri Foucault, Barthes, Guattari, Deleuze, Sartre e Simone de Beauvoir, Althusser, Maria Antonietta Macciocchi) e ai gruppi di liberazione gay, e contemporaneamente si offrì come nazione ospite per un Campeggio Gay internazionale, che ebbe luogo, non senza difficoltà, e varie forme di opposizione, a Paros dal 6 al 26 agosto di quell'anno.

Questo episodio costituisce l'antecedente diretto e lo spunto da cui trasse origine il Campeggio gay organizzato dal 1 al 20 agosto 1979 da Felix Cossolo a Capo Rizzuto, una località marina splendida e semisconosciuta della Calabria.

Fu un evento memorabile, per quegli anni, un concentrato di emozioni, attese, desideri, vita comunitaria, esperienze e riflessioni, per i suoi partecipanti.

Il campeggio era segnato tra l'altro da una scelta che caratterizzava la vita in spiaggia, quella del nudismo; e inoltre dal fatto di non essere, per la verità, un gay camp in senso proprio: delle mille persone campeggiate nei giorni pieni, sole 250/300 erano gay e lesbiche (queste ultime solo una ventina): moltissimi gli stranieri (francesi, danesi, tedeschi, olandesi), molti gli etero - e per comprendere l'interazione tra etero e gay occorre ricordare che gli anni Settanta furono caratterizzati dal bisogno di molti etero, che diventava anche emblema culturale, di esperire la propria omosessualità, e contemporaneamente da una spinta a cercare il maschio etero, a metterne in crisi le certezze, a sedurlo e a coinvolgerlo sessualmente, da parte dei gay.

Nello stesso tempo, il Campeggio di Capo Rizzuto fu un momento di vita comunitaria gay inedito in tutti i sensi, e dirompente: per il gay che giungeva al campeggio da solo, per lo più, perché in quegli anni la propria solitarietà, cioè singolarità di gay, era il punto di partenza obbligato della vita di quasi tutti, soddisfava il bisogno di socialità e conoscenza tra omosessuali, il bisogno di conoscersi (anche sessualmente): di stare «tra noi in maniera molto tranquilla, affettuosa; toccandoci, baciandoci, parlando» (p. 25).

Altra caratteristica del Campeggio furono il gioco, il travestimento, la trasgressione vissuta anche come momento ludico e liberatorio, uniti a spazi di discussione e di riflessione sia pubblici sia, come suole accadere, privati, per l'iniziativa comune di singoli che si cercano; e ancora la musica, le confidenze, il cantare e lo stare insieme.


Cercando il paradiso perduto costituisce una cronaca diretta del Campeggio del 1979 (altri, pubblicizzati dal bollettino gay Lambda, poi da Babilonia, ebbero luogo ogni successiva estate, fino all'annus horribilis 1984 incluso).

Cronaca «dal di dentro», e non solo perché chi vi ha scritto partecipò a quel campeggio, ma perché «dal di dentro» premevano tutti i desideri, e anche i timori, le idee, le speranze, i gesti di sfida, di ricerca di sé e di rinnovamento di sé, che potevano dare vita a una simile iniziativa, e nutrirla.


Il libro è costituito da una serie di testimonianze di singoli, anche molto diverse tra loro, e ha quindi un tono comune, più che un'unitarietà di contenuto; ma l'omogeneità del tono, che è riflesso di un momento storico cruciale per l'emergenza di un'intera generazione gay, è caratteristica, e molto forte.


Si parte con una Introduzione (pp. 7-17) di Ivan Teobaldelli, che, con piglio e mordente, avanza una suddivisione degli omosessuali («i froci», termine di rigore in quegli anni) in due categorie, «le checche e i gay» (questi ultimi sono gli aderenti del FUORI), ovvero «i selvaggi» e «gli addomesticati», puntando, come del resto tutto il libro, a una sorta di celebrazione del potenziale trasgressivo della checca, celebrazione che però appare calibrata da altri motivi.

Il suo tentativo di riflessione sulla «scheccata» è chiaro, sincero, e tutt'altro che scontato, tanto che può valere la pena di riportarne uno stralcio, anche per dare un'idea dello stile del volumetto (e del tono di una testimonianza gay della fine degli anni Settanta):


Dovunque celebri i suoi fasti, la scheccata è rigidamente "univoca". È un monologo, uno strumento sordo che trasmette e non riceve. Se avviene nel salotto buono di una checca, il vincitore è condannato a una solitudine superba dove la tenerezza e l'abbandono sono virtualmente banditi. Se è giocata in un accerchiamento di militari, i ruoli sono subito imposti: le checche fanno la parodia della donna e gli altri devono essere rigidamente eterosessuali. Guai a chi si azzarda a tirare fuori un po' della sua omosessualità reopressa! non sarà tra quelli invitati a salir di sopra, per una tazzina di caffé.


In realtà, la scheccata è un suicidio, una crocifissione che concentrando, come una calamita, tutta l'omosessualità sul frocio, rafforza la violenza dei ruoli e lo destina alla durezza, al soddisfacimento di rapina, veloce ed egoista, dell'etero. Tentare invece una maieutica del desiderio omosessuale degli altri (invece che istigarli a un aborto di comodo), il più delle volte significa rinunciare alla scopata, e in secondo luogo essere costretti a fare i conti con la propria parte repressa, quella maschile, che ha da presentare un lungo elenco di rimproveri (p. 13).

Seguono Gay Greek Camp (pp. 19-23), dello stesso Teobaldelli, una breve cronaca del campeggio di Paros del 1978 (originariamente pubblicata in Lotta continua del settembre 1978), e Campeggio gay internazionale - Capo Rizzuto 1979 (pp. 25-35), di Andrea Pini, una riflessione critica sui contenuti, sugli elementi riusciti e quelli non riusciti, del campeggio, nonché sugli echi che esso suscitò nella stampa (gli articoli di Repubblica e L'Unità sono citati come esempio negativo), originariamente pubblicato nel numero Settembre-Ottobre 1979 di Lambda, e infine un lungo, divertente, dettagliato resoconto del 2° Campeggio internazionale di Capo Rizzuto, quello del 1980, anch'esso organizzato da "Zia Felicita", alias Felix Cossolo (pp. 37-55), corredato da varie fotografie illustrative.

A partire di qui il libro raccoglie testimonianze, riflessioni o altri materiali relativi al campeggio del 198: Serata di poesia, alcune poesie di Andrea Pini e di Maurizio Alonge (pp. 57-59); Lettera da Parigi (pp. 61-63) firmata da tal Pabla, che si definisce una «folle parisienne»; Una vacanza rivelatrice (pp. 65-69), il resoconto di un amore ri-nato nel campeggio, di Gianni Calabrese; un'intervista a un transessuale, Vito, ovvero Stefania (pp. 91-99); Album di pensieri di Isabella, una lesbica (pp. 101-107), e altro ancora.


Vorrei ancora citare i due interventi Tra le righe di una vacanza... (pp. 71-81), di Gigi Malaroda, e Riflessioni sul movimento omosessuale (pp. 83-89), di Eugenio Manca, quest'ultimo autore anche di Sono un comunista, e la penso così (pp. 109-113), originariamente pubblicato su L'Unità dell'agosto 1980.

Se quest'ultimo breve pezzo sviluppa la retorica del «quanto sia cambiata l'Italia, di quanto sia divenuta più pluralista e laica, di quanto anche il PCI vi abbia contribuito» (p. 113) - per quanto riguarda l'omosessualità, davvero nulla - le Riflessioni sul movimento omosessuale sono apertamente ostili al movimento omosessuale di allora, e giungono ad accusare il FUORI di avere un atteggiamento «isolazionista e ghettizzante» (p. 87) perché nel Congresso di Torino del 1978 aveva espresso il bisogno della costituzione di una "comunità gay" capace di offrire servizi e cultura: oggi vediamo fino a che punto questa sarebbe stata la strada giusta da battere.

A ciò contrappone il dialogo con il PCI, dialogo (effettivamente avvenuto durante il campeggio con la partecipazione di alcuni gay a una Festa provinciale de L'Unità tenutasi a Crotone) che costituirebbe «un'alternativa al ghetto» (p. 89).

L'ossessione del «ghetto», intendendosi per ghetto ogni espressione movimentista gay in senso proprio, organizzato e autonomo, è presente in varie pagine di questo libro, e denuncia un limite politico e culturale i cui effetti, lo si vede bene trent'anni dopo, sono stati disastrosi in Italia; così come la tesi per anni proclamata fino allo sfinimento, e priva di ogni significato reale, che accreditava «l'omosessualità come una condizione socialmente rivoluzionaria» (p. 89): tesi tanto più inconsistente perché era espressa in anni in cui il concetto di «rivoluzione» era già solo una parola ritualmente ripetuta da intellettuali su terreno libresco e di lì a pochissimo destinata a scomparire.

Ma la lettura di questo libro è interessante proprio perché, accanto a momenti gioiosi e pieni di intenzionalità positiva, restituisce anche la radice di vari errori compiuti in un passato non poi così remoto.


Così, nell'intervento di Malaroda, è interessante la notizia che molti omosessuali soprattutto stranieri criticarono la decisione di organizzare un campeggio non esclusivamente omosessuale, mentre Malaroda scrive:

Proprio quest'esperienza invece mi ha ulteriormente rafforzato nella convinzione che sarebbe stato un errore cercare di creare un'isola felice "for gays only". Certo anche lì i rapporti con la maggioranza degli etero non erano eccellenti. [...] Ma che senso avrebbe avuto comunque una scelta di totale isolamento? Una fuga da una realtà ben presente, una forzata quanto impossibile separazione da una quotidianità opprimente. Anche perché rinchiudendoci all'interno di un ghetto autogratificante non è possibile fare grandi passi in avanti nel percorso individuale e collettivo di conquista d'autonomia (p. 73, corsivo mio).

Oggi penseremmo piuttosto l'inverso: che non è possibile fare passi in avanti, in qualunque ambito, individuale come di rivendicazione politica, senza la costituzione di una forte identità gay non solo individuale ma d'ambiente, di gruppo, di amicizie, di associazionismo e di movimento.

Il «dialogo», se è veramente tale, esige, da Socrate in poi, condizioni di parità e di eguale forza tra i dialoganti, massime se è «dialogo» tra una minoranza e forze politiche, o mass media, o Istituzioni.

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