recensione diMauro Giori
Morte a Venezia
Visconti accarezza per quarant'anni l'idea di portare sullo schermo La morte a Venezia dell'amatissimo Thomas Mann, e quando finalmente vi mette mano ne trae uno dei suoi film più intimi e personali, nonché uno dei più apprezzati della sua ultima produzione, di solito trattata con liquidatoria superficialità.
Ma puntualmente, all'uscita del film la critica lo ha affrontato con le stesse imbarazzate rimozioni che caratterizzavano gli studi su Mann e che hanno per la verità dominato la letteratura viscontiana anche in seguito. Secondo queste letture, Morte a Venezia non avrebbe nulla a che fare con un tema così basso e limitante come l'omosessualità, e tratterebbe invece del bello ideale, dell'arte, ecc. Ma in realtà l'aspetto più evidente del lavoro di adattamento compiuto dal regista, romanzo e sceneggiature alla mano, consiste proprio nell'attribuire a Tadzio tratti ben più narcisisti, compiaciuti e consapevoli di quelli che caratterizzavano il personaggio di Mann. Senza contare che Visconti instaura un parallelo esplicito e rivelatore tra Tadzio e la prostituta Esmeralda (un episodio prelevato da un'altra opera di Mann, il Doctor Faustus).
A ben vedere, il regista fa anzi tutto quello che gli è possibile per accentuare la componente sensuale del racconto di Mann, e se ambiguità permangono nel film è semplicemente perché vi sono limiti invalicabili dettati dal materiale di partenza.
Per chi volesse approfondire, rimando al mio libro Scandalo e banalità. Rappresentazioni dell'eros in Luchino Visconti (1963-1976).