Il mio amato

[Recensione di Paolo Minore]


Fin dalle prime pagine il protagonista rivela di essere, sostanzialmente, un privilegiato che ha saputo sfruttare la sua abilità di calligrafo e farne una professione rispettata e redditizia, che oltretutto gli consente di avere buona parte della giornata a disposizione e di dedicarsi così ai propri svaghi e interessi e alle proprie inclinazioni.

Una posizione economica ed una rispettabilità che pochi possono vantare nel quartiere ebraico ultraortodosso di gerusalemme, Mea She'arim, in cui il protagonista vive con la moglie.

E' presto chiaro però che questa facciata di rispettabilità (che gli permette di conservare uno spazio privato ed intimo in cui rifugiarsi con i propri libri al riparo dal fortissimo controllo sociale e religioso della comunità) presenta delle incrinature.

La macchia da nascondere è la perdita della fede. A causa di ciò egli si trova costretto, per proteggere la solidità della posizione raggiunta, a una vita di rispetto puramente esteriore delle norme religiose e sociali della comunità, con il tacito consenso della moglie, che subisce la situazione pur di salvaguardare il proprio matrimonio, e quindi la propria rispettabilità.

Ma il castello di carte costruito con tanta attenzione e sorveglianza costa sforzi sempre più duri, ed è presto chiaro, oltretutto, che l'insoddisfazione e la solitudine in cui il protagonista è sprofondato nascondono altro.

Il mistero (se di mistero si può parlare, tenuto conto che il titolo italiano del libro è più che esplicito) viene svelato solo nelle ultime pagine, ed anche allora con reticenza e molto sforzo, e con un senso di colpa mai superato.

Il libro è ben scritto e ben costruito, l'angoscia che avvolge l'io narrante è lucida, e per questo ancor più cupa.

Inoltre ho personalmente trovato estremamente interessante la descrizione dell'ambiente ultraortodosso gerosolimitano, con la sua infinita rete di regole e norme formali che pervadono ogni aspetto della vita pubblica e privata di un ebreo osservante.

Ma non posso che giudicare riprovevole il finale. Una volta che il protagonista ha riconosciuto e compreso la propria natura, non sceglie di assecondarla, e preferisce non mandare in frantumi quella vita di comodità e di agio apparenti, ma di profonda insoddisfazione.

Tutto ciò non solo non è liberatorio (cosa che non nuoce alla drammaticità della storia, contribuendo anzi per questo aspetto ad esaltarla), ma - peggio - è castrante, e porta in sé un messaggio negativo.

Il protagonista pare arrendersi, e colpevolizzare la propria razionalità come instillatrice di dubbio e di conoscenze fallaci, a fronte della presunta purezza della religione e della fede.

Last but not least, assolutamente inaccettabile è la concezione dell'omosessualità come malattia, che il libro sembra avallare.

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