Sergio Martino è stato uno dei più duttili registi del cinema popolare italiano e ha avuto il proprio periodo aureo negli anni Settanta e Ottanta. Data la propria capacità di maneggiare con destrezza e astuzia i cliché dei generi più disparati, ha saputo passare con disinvoltura dal giallo alla commedia, dal poliziottesco all’avventura, dal western alla fantascienza. Nella sua filmografia abbondano inoltre dei personaggi che rientrano alla perfezione nello standard della rappresentazione caricaturale dell’omosessualità maschile (tra i più vistosi, l’appiccicoso passeggero gay di Giovannona Coscialunga), ma non mancano neppure le lesbiche voluttuose ed esibizioniste tipiche dei gialli all’italiana. Per questa ragione, Martino è stato intervistato per il documentario Ne avete di finocchi in casa? (2017) del collettivo GayStatale dell’Università degli Studi di Milano, dedicato alla rappresentazione degli omosessuali nel cinema “di genere” italiano. Riportiamo qui per esteso la trascrizione dell’intervista:
Secondo lei, a cosa si deve la proliferazione di personaggi
omosessuali effeminati e caricaturali nel cinema degli anni Settanta?
Già ce n’è erano stati in abbondanza negli anni Sessanta, però è
negli anni Settanta che si registra un’esplosione assoluta.
In
realtà nel cinema ci sono sempre stati, anche in passato, dei
personaggi omosessuali, anche se si tendeva a non dire che lo
fossero. Uno dei miei primi ricordi di questo tipo di
rappresentazione è però legato al teatro, con Alberto Bonucci –
del famoso trio Valeri-Bonucci-Caprioli, i Gobbi – che faceva delle
imitazioni di animali, e in particolare di un pappagallo che sembrava
avere quell’atteggiamento. Certo, l’esplosione degli anni
Settanta è coincisa forse con una maggiore libertà di costumi, con
la disponibilità della censura ad accettare anche personaggi
“scabrosi”, ma in fondo si continuava soprattutto a sfruttare il
potenziale di facile comicità determinato dal fatto che un attore si
travesta da donna o assuma un atteggiamento effeminato. Anche i
maestri del cinema italiano non si sono sottratti a questo
meccanismo: penso ai travestimenti di Totò, per esempio.
In un Un turco napoletano, del ’53, Totò
si faceva credere un eunuco per rimanere indisturbato in compagnia
dei personaggi femminili. Allo stesso modo, Alberto Lionello in
Signore e signori di Pietro Germi si fingeva
impotente con uno scopo simile, fino ad arrivare a Lino Banfi, nel
suo La moglie in vacanza… l’amante in città,
che fa credere di essere gay per godere della compagnia di Barbara
Bouchet.
Nei miei film, chi ha fatto più spesso ricorso a
questi espedienti comici è stato forse proprio Banfi, anche se pure
Pippo Franco, in Zucchero miele e peperoncino, si travestiva –
e in modo neanche troppo macchiettistico – per spacciarsi per una
cameriera...
…e, da uomo etero, si trasformava in una donna lesbica,
innamorata della padrona di casa, Dagmar Lassander.
Banfi
però ha sempre avuto quella direzione “fissa”, e mi raccontava
sempre di voler fare un film incentrato su un personaggio conosciuto
nella sua infanzia nel paese natale: un anziano omosessuale. Voleva
riproporlo in una chiave – diciamo – più sentimentale e forse
anche drammatica, anche se per certi versi grottesca.
Fin qui abbiamo menzionato personaggi che si fingono
omosessuali, ma nelle sue commedie, tra i personaggi secondari, ci
sono parecchi gay, incarnati tra l’altro dagli specialisti in
questo genere di interpretazioni.
Certo, Luigi Leoni e
Franco Caracciolo sono stati spesso usati nel mio cinema, ma anche da
molti altri negli stessi anni, in quella chiave. Caracciolo l’ho
utilizzato, per esempio, ne L’allenatore nel pallone, in cui
interpretava un radiocronista con un modo di fare saccente che
nascondeva una certa vena di omosessualità. In Cornetti alla
crema invece ho utilizzato Leoni facendogli fare il pretino, con
un atteggiamento un po’ ieratico e nello stesso tempo un po’
femmineo.
La figura del sacerdote effeminato è un grande classico delle
commedie italiane.
Negli atteggiamenti di molti prelati
traspare l’omosessualità, e a volte anche una certa misoginia,
atteggiamento diffuso che si è tradotto in un tentativo assurdo di
castrare la sessualità maschile. La mia generazione è stata molto
frustrata in tal senso. Io ho studiato al collegio San Giuseppe di
Piazza di Spagna, e ricordo che ci facevano uscire da una porta
secondaria che dava su Via del Babuino per evitare che incrociassimo
le ragazze.
Si ricorda qualcosa in particolare delle indicazioni che dava a
Caracciolo e Leoni al momento in cui dovevano entrare in scena?
Leoni
era un vero personaggio nel modo di essere e di presentarsi. Dentro
di sé aveva questa tacita accettazione del fatto di essere
immediatamente percepito come omosessuale. Spesso, data la cattiveria
e il machismo tipico delle troupe, alle sue spalle si faceva della
facile ironia. Credo che dentro di sé patisse questa situazione, ma
con me ha avuto un rapporto di rispetto reciproco. Dal canto mio,
giocavo ironicamente sull’effetto comico che risultava dalla sua
particolare gestualità. Anche nel caso di Caracciolo, che ho avuto
anche in Mezzo destro mezzo sinistro con Gigi e Andrea, quando
gli davo istruzioni sul modo di recitare, prendevo in considerazione
che in lui fosse innato questo atteggiamento: non gli ho mai chiesto
di sforzarlo, così come a Leoni non ho mai detto «mostrati un
pochettino più omosessuale di quanto… [NdA: tu non sia]». Però
non gli ho mai chiesto del loro privato!
Nei thriller italiani (e non solo) il lesbismo è visto invece
in una chiave più nera, priva di umorismo. In “compenso”, però,
è sfruttato in chiave erotica. Ciò vale anche per certi suoi film.
Penso a I corpi presentano tracce di violenza carnale
e Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la
chiave.
Le scene erotiche sono cose che io ho
sempre fatto di malavoglia. Nei primi anni Settanta, si voleva
approfittare dell’apertura della censura verso le immagini più
morbose, e quindi si sentiva quasi la necessità di inserire scene di
lesbismo, soprattutto nei gialli. Ne I corpi presentano tracce di
violenza carnale, la scena di sesso tra due donne (che penso non
avessero inclinazioni lesbiche) era talmente malfatta che,
rivedendola oggi, mi sembra inefficace sotto il profilo erotico.
Forse ne Il tuo vizio è una stanza chiusa l’inserimento
della stessa componente “morbosa” era più accettabile sotto il
profilo della credibilità, essendo anche Edwige Fenech e Anita
Strindberg più qualificate come attrici.
In quel caso, perlomeno, il rapporto lesbico aveva una
collocazione all’interno della trama, non era “accessorio”,
mentre ne I corpi presentano tracce di violenza carnale
le effusioni tra le due ragazze sembrano un’esplicita strizzata
d’occhio allo spettatore-voyeur, identificato con lo scemo del
villaggio che le spia. In un altro momento, la ragazza nera, quando
l’altra percepisce una presenza sinistra in lontananza, dice
addirittura: «Sarà il solito guardone», come se desse per scontato
di essere perennemente osservata, mentre è assieme alla
compagna.
Ripeto: nella maggioranza dei casi l’unica
ragione di quelle scene erotiche stava nelle esigenze distributive.
Come per le parolacce nei film comici: chi ha sdoganato le parolacce
nel cinema sono stati Sordi e Gassman ne La grande guerra, con
il famoso scambio di battute «Chi siete?» «Semo l’anima de li
mortacci tua!», che scatenò esplosioni di risa nelle sale. Da quel
momento, se non si metteva un «li mortacci tua» o un «figlio di
puttana», sembrava quasi che la gente non potesse ridere.
Se tornassi a girare quei gialli, quelle scene non le rifarei, probabilmente. L’efficacia della morbosità secondo me era più nelle intenzioni che nel risultato, ma in quegli anni si cercava di essere plateali in tutto perché l’Italia era cambiata completamente. La mia generazione era nata con l’immaginare piuttosto che con il vedere, ma poi siamo arrivati a questa fase di spettacolarizzazione, spesso elementare, che ha tolto fascino a tutti gli aspetti della sessualità.
Scene che prevedessero un coinvolgimento carnale tra uomini
immagino che non si potessero neanche pensare, in quel periodo.
No,
perché il mondo maschilista “accettava” l’omosessualità
femminile e non quella maschile. Chi faceva cinema, lo faceva
guardando verso il basso. Persino nelle locandine – se ci fai caso
– si mettevano sempre le donne al centro, nella speranza di
attrarre un certo tipo di pubblico.
Tornando a lei, le tematiche LGBT le hanno mai ispirato qualche
storia al di là dei codici del cinema di genere?
Alcuni
anni fa, negli anni d’oro del leghismo e del machismo ad esso
collegato, ho scritto una bellissima storia che poi non è stata
realizzata. Il titolo sarebbe stato Girasoli scuri. Parlava di
un ragazzo, figlio appunto di un leghista, che lasciava l’Italia
per la Francia, e in seguito si ripresentava come donna al padre, il
quale non sapeva nulla di questa trasformazione. Il film voleva
essere un modo per raccontare la difficoltà delle persone trans di
inserirsi nella società. Mi spiace molto di non averlo fatto, ma non
avevo ancora trovato la persona giusta per interpretare il ruolo
principale, volevo qualcuno che fosse credibile nella parte di una
trans, per evitare scadimenti. Se potessi riproporre la sceneggiatura
lo farei, ma non per dirigerlo io, il film. Ormai penso che sia
inutile pensare di tornare a fare cinema, perché è un mestiere
faticoso e che comincia ad annoiarmi molto.