Intervista a Lino Banfi

22 marzo 2020, MIfacciodiCultura

«Dunque: i ricchioni si dividono in due grandi categorie, i maschi e le femmine, che sono gli unisex, in inglese “sex appeal”». Chi si fosse perso gli ultimi quindici anni della carriera di Lino Banfi potrebbe ricordarlo come uno dei massimi cantori dell'italica “indelicatezza” in materia di omosessualità; la citazione in apertura è tratta infatti da uno dei film più celebrati che vedono Banfi protagonista, Vieni avanti cretino (1982, Luciano Salce); in questo autentico cult-movie il Lino nazionale impersona tale Baudaffi Pasquale, che tutto a un tratto si improvvisa conferenziere e intrattiene il cugino con un delirante monologo su tutte le possibili declinazioni dell'omosessualità.

Nella sua carriera cinematografica Banfi ha vestito spesso i panni di gay “esorbitanti” e fracassoni, il più interessante dei quali è il salumiere Dario di Dio li fa poi li accoppia (1982, Steno); ancor più di frequente si è trovato a recitare battute che spernacchiavano allegramente gli omosessuali, fino a interpretare personaggi vistosamente ottusi e omofobi come il Barone Patanè di La moglie in bianco... l'amante al pepe (1981, Michele Massimo Tarantini), che si lambicca il cervello nel tentativo di riportare sulla buona strada il figlio presunto “ricchione”.

Ma da quando Banfi è una star del piccolo schermo ha spesso avuto (e cercato) le occasioni per approfondire il discorso in materia LGBT, tentando di corredarlo con tutta la “poesia” che aveva già voluto imprimere al personaggio del succitato Dario di Dio li fa poi li accoppia, per proteggerlo dal destino di diventare “la solita caricatura”.

Anche se non consideriamo le parentesi friendly della veneranda serie Un medico in famiglia, possiamo trovare ben due film televisivi in cui Banfi ha interpretato personaggi omofobi per ignoranza che superavano i loro pregiudizi più radicati. Il primo caso è Un difetto di famiglia, nel quale la conversione di Banfi è facilitata da una serie di eventi al limite del miracoloso; il secondo è Il padre delle spose, che ha procurato al “Nonno d'Italia” (anche sceneggiatore) svariate critiche, a dispetto della sua bravura nel disegnare l'evoluzione psicologica del personaggio.

Ma il rifiuto dei pregiudizi da parte di Banfi non è una conquista del nuovo millennio; ha un'origine ben più antica: risale infatti alla sua adolescenza in quel di Canosa di Puglia. Abbiamo toccato questa tematica nel corso di un'intervista che Banfi ha concesso al collettivo studentesco GayStatale (interno all'Università degli Studi di Milano) per il documentario Ne avete di finocchi in casa?, riguardante la rappresentazione di gay e lesbiche nel cinema popolare italiano degli anni '70.



Il personaggio del gay ha accompagnato la sua carriera prima a teatro (in un numero di avanspettacolo interpretava un sarto molto effeminato) e poi al cinema, dove ha impersonato sia omosessuali veri e propri che eterosessuali che si fingevano gay. C'è stata qualche persona, nella sua gioventù, che abbia fornito un modello per queste caratterizzazioni?
Quando avevo quattordici, quindici anni – ero appena uscito dal seminario, facevo il ginnasio e stavo per passare al liceo classico – c'era l'unico gay dichiarato del paese che si chiamava Mengucc', cioè Domenico, già anziano (aveva trenta o quarant'anni più di me)... sempre dimesso, sempre solo, schivato da tutti. Tutti i genitori dicevano ai figli di non parlare col “ricchione”. Mio padre Riccardo, che aveva fatto solo la terza elementare, aveva una sua mentalità contadina ma pulita, altruista, e mi disse: «Ma perché tutti quanti dicono di non parlare con quello? Che tiene? La rogna?». Io lo guardai come per chiedere: «Ma allora 'i pozz' parlér, se capita...?». «Ma che, scherzi? Certo che sì» rispose lui. Molti anni dopo, quando ho capito il significato del termine “omofobia”, mi sono detto: «Ma allora aveva ragione mio padre! Riccardo Zagaria, sempre lontano dall'omofobia», per fare la rima.



Alla fine degli anni '70 è uscito un suo libro intitolato L'invertito di provincia. Era quel Menguccio l'invertito di provincia?
Sì, sì, era lui. Io mi ispirai molto a lui: gli dicevo di raccontarmi le sue storie e lui mi chiedeva «Ma non è che ti vedono parlare con me e poi ti rimproverano?» «Ma che, scherzi? Dai!». Ci facevamo lunghe passeggiate nella villa comunale, lui mi parlava di quando si innamorava e così via. Mi fece tenerezza una volta che mi disse: «Si vede che io e mia sorella – aveva una gemella, lui – siamo nati con una specie di scambio di mormoni. Io c'ho i mormoni femminili e mia sorella i mormoni maschili. Che ci possiamo fare?».



La battuta poi è tornata in La moglie in vacanza... l'amante in città (1980, Sergio Martino), quando il suo personaggio – che si finge gay – dice «A me m'hanno rovinato i mormoni: io c'ho il 98% di mormoni femminili!».
Io tutto ciò che ho assimilato nella mia gioventù poi l'ho messo nei film. Tutte le frasi che dico io sono state usate da mio padre, mio zio, qualche mio parente o qualche mio amico.



Nei suoi primi film, quelli con la coppia comica Alighiero Noschese ed Enrico Montesano, lei ha interpretato quasi sempre il ruolo del gay. Ha mai temuto di rimanere intrappolato in quel ruolo?
Molti miei colleghi si sentono intrappolati nei ruoli, ma io sono talmente felice quando ne interpreto uno che piace alla gente! Quando abbiamo fatto le ultime tre o quattro serie di Un medico in famiglia (quella che andrà in onda a settembre è la decima) ho detto: «Ma perché dovete scrivere “Lino Banfi in Un medico in famiglia”? Scrivete invece: “Nonno Libero presenta...”». Quindi, se io avessi successo – per dire – con un personaggio che si chiama Menguccio, sarebbe lo stesso. Magari avessi potuto fare una serie di quindici film sull'argomento: ci sarebbero stati mille spunti poetici da mettere dentro, e io sarei stato giusto nelle vesti del personaggio. Non me ne sarebbe fregato niente, poi, di essere chiamato per strada “Menguccio”.

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