recensione diStefano Bolognini
Può mai l'amore essere plagio?
E' stato finalmente pubblicato Il processo Braibanti di Gabriele Ferluga edito da Zamorani editore. Il testo ricostruisce minuziosamente uno tra i più importanti, e meno conosciuti, scandali giudiziari omosessuali italiani. Ne parliamo con l'autore.
Nel 1968 Aldo Braibanti, un intellettuale di sinistra, fu condannato a due anni di carcere per aver plagiato un giovane con cui intratteneva una relazione omosessuale. Peccato che il reato di plagio sia stato pronunciato, lungo la storia italiana, solo in quella circostanza! Cosa accadde realmente?
Ce lo racconta un giovane studioso, Gabriele Ferluga, che è riuscito, tra mille difficoltà, a ricostruire l'intricata vicenda pubblicando Il processo Braibanti.
L'ottimo testo sembra subire lo stesso destino dello scandalo tanto che nessun addetto ai lavori, tranne qualche raro caso in ambito gay, sembra volerne parlare.
Quando le vittime sono omosessuali l'Italia tace.
Lo scandalo Braibanti è stato uno dei più importanti scandali gay italiani. Come incominciò?
Siamo negli anni sessanta, in provincia di Piacenza. Aldo Braibanti, un intellettuale di sinistra già partigiano, conobbe Giovanni Sanfratello, di 19 anni e quindi minorenne per la legge in vigore all'epoca, con cui intrattenne una relazione profonda.
Giovanni, con l'aiuto di Braibanti, intendeva allontanarsi dalla famiglia e costruire la propria vita. I due si amavano e nell'intenzione di vivere insieme si trasferirono per un breve periodo a Firenze e poi definitivamente a Roma. Qui la famiglia Sanfratello si recò spesso per cercare di convincere Giovanni a rientrare a casa, inutilmente.
A questo punto incominciarono i guai...
In effetti - siamo nel 1964 - il padre di Giovanni, Ippolito Sanfratello, pare sia "illuminato" da un suo amico sacerdote sull natura del rapporto che intercorreva tra Braibanti e il figlio e denunciò Braibanti per plagio, un reato creato dal legislatore fascista e rimasto unico nel quadro giuridico europeo.
In cosa consiste il reato di plagio?
L'articolo 603 del Codice Penale (che poi la Corte Costituzionale ha abrogato come illegittimo nel 1981) puniva chi sottoponeva qualcuno al proprio potere in modo da ridurlo in totale stato di soggezione.
Fino a Braibanti però nessuna sentenza di condanna era stata mai pronunciata sulla base di quella norma "fumosa".
Cosa accadde dopo la denuncia?
Il padre del giovane, insieme ad alcuni altri membri della famiglia, si presentarono alla pensione dove la coppia viveva e rapì il giovane, portandolo con la forza in manicomio.
Là, Giovanni, restò circa un anno, inchiodato alla diagnosi di "schizofrenia" e sottoposto a tutte le "terapie" previste all'epoca, cioè elettroshock e coma insulinici.
Il procuratore - che tenne aperta l'inchiesta per quattro lunghi anni, nonostante a norma di legge non potesse farlo - fece arrestare Braibanti verso la fine del 1967. Il processo fu una sfilata incredibile di personaggi legati alla destra, talvolta estrema, come nel caso del perito nominato dalla Corte Aldo Semerari.
Giovanni non accusò mai Aldo Braibanti di plagio e anzi cercò di difenderlo sostenendo che aveva avuto con lui rapporti sessuali perché gli piacevano.
Il castello accusatorio non crollò, ma si rafforzò. Si disse che evidentemente Giovanni doveva essere ancora sotto l'influenza di Braibanti e questo provava l'avvenuto plagio!