recensione diGiovanni Dall'Orto
Figlio di un preservativo bucato
Howard Cruse è il più celebre esponente del fumetto gay "politicamente impegnato" degli Usa, di cui è considerato uno dei padri fondatori (celebre negli anni Novanta fu la sua serie Wendel). Ha un tratto originale, e storie che riescono a far pensare.
Ma allora perché questo libro, considerato il suo capolavoro, vincitore di numerosi premi per il fumetto, è così dannatamente deprimente?
Ambientata negli anni Sessanta, cioè nell'America ancora maccartista, e nell'ottusa, razzista, omofoba e sessista "provincia" americana, la vicenda narra il tortuoso e difficile coming out d'un omosessuale, figlio di un religioso protestante, coinvolto nelle lotte politiche di quegli anni (contro la segregazione razziale, per i diritti civili).
Violenza, repressione poliziesca, fatica ad accettare la propria natura, paura della reazione degli altri... costellano il suo itinerario, che comprende anche uno scontro con il KKK (il quale provvede altresì a linciare, impiccandolo, un suo amico "frocio amico dei negri", con la connivenza della polizia che vuol spacciare l'accaduto per un suicidio).
L'intento di denunciare la violenza cieca della fascistissima "Provincia profonda" americana in epoca maccartista è lodevole. Ma forse ci sono troppe disgrazie, troppe sfighe a ripetizione (inclusa la gravidanza indesiderata dell'amante del protagonista) tutte assieme. Il lieto fine, più che una conquista ottenuta combattendo contro le circostanze precedenti, appare quindi un miracolo catapultato dal cielo.
Che dire? Il fumetto è bello, coraggioso, e a tratti anche poetico. Fa riflettere, come da intenti dell'autore. E coinvolge emotivamente.
Ma tenete a portata di mano una confezione di antidepressivi: può venir utile.