Sudore e asfalto

Recensione di Gianfranco Franchi. Riedita con il gentile consenso dell'autore.

Sette prose brevi animano la scrittura lirica, sensuale e metropolitana del letterato Antonio Veneziani, artista della Scuola Romana, in questo ormai irreperibile Sudore e asfalto (Stampa Alternativa, 1995).

È un libro di ritratti d'anime che cantano sofferenze, desideri, morte, angosce e violenze: tratteggiati con uno stile capace di improvvise elevazioni da un registro altrimenti molto ben calibrato e misurato, in una narrativa che mostra limpida derivazione dalla poesia del maestro di Brown Sugar.

Quest'opera breve, a distanza di tredici anni, potrebbe essere considerata come un fertile viatico del successivo Cronista della solitudine; ne condivide intensità, lirismo e adesione empatica all'alterità. Raccontata, manco a dirlo, con la sensibilità del pittore d'anime.

Nel primo pezzo, "Alì", un giovane affronta una "rabbia impotente" che "screpola il cuore", meditando sulla crudeltà dei rovesci della sorte, e delle cose della sua (nuova) vita; operaio d'un cantiere abusivo, abbandonato a sé stesso e sfruttato, maledice i cristiani. Sta piangendo un amico caduto. Unico a "dilazionare il dolore" un gabbiano che batte le ali su un alberello fragile.

In "Brividi", una serva parla d'una padrona, idolatrandola. Intanto combatte, tra nostalgia e ossessione del tempo, una battaglia senza nome. Osserva lei che legge, e sembra annoiarsi; e proprio mentre compiange le di lei passate fortune amorose, la vede riprendersi e chiamare qualcuno. Rimane a guardarli mentre fanno l'amore, e così avanti; tra "inspiegabile felicità" e "brividi deprecabili", la narratrice vive da placida voyeur una vita che non le appartiene. A oltranza, sospesa in un limbo erotico.

"Mark" è un pezzo notturno. Siamo in piazza dei Cinquecento, il tempo s'è fermato: Mark gioca a prendere corpi. Giovani e vecchi vanno a cercarlo, "ignari d'inseminarsi la morte", per crepuscoli languidi e tenebre sudate; Mark "veglia albe che non giungono mai", e il narratore, infine, domanda:

"Nulla ha più senso, vero Mark? Gli unici traguardi sono ormai muri e voragini. Nessuno potrà credere che quel veleno lo hai iniettato volontariamente. È colpa dei tortuosi labirinti alla ricerca d'un introvabile filo di salvezza? Oppure le pieghe della delusione sono insanabili, Mark?"

- e il mistero insondabile di chi dona la morte per appartenere rimane senza scalfittura.

Ecco "Merilyn", quarta prosa. Lei è bella, provocante, appariscente. La luce, intanto, "con una sciabolata srotola i sogni residui"; la città, à la Dino Campana, è un miscuglio di "azzurri tendenti al grigio perla". Sta amando qualcuno che la spaventa; la inquieta, perché c'è aria di pronomi possessivi. Si ritrova ladra, e forse persino assassina; ombre oscure di sangue sui muri intorno, pensando che l'amore fa fare cose stupide. Velenose.

In "Mohamed", il protagonista combatte il desiderio delle donne; sente svanire la realtà, sprofonda nella malinconia: consapevole della solitudine, conclude con l'unico gioco che gli è permesso. Le lenzuola, prima, profumavano; tutto tace, s'avvicina la petite mort.

E poi c'è "Shim", come erba tra cemento e asfalto, occhi profondi di laghi "increspati dall'aurora", e intanto va, fiutando il vento. Di notte si rompe "le ginocchia dell'anima", avventurandosi in cerca di fortuna. Infine, come manichino, si ritrova abbandonato, l'anima spaccata. Pasoliniano.

"Shalom" chiude Sudore e asfalto. Sara si guarda allo specchio e ascolta una storia di estasi e agonia, di rughe al cuore e occhi d'acqua marina; infine, esce di casa e decide di scendere per Ponte Sisto, sino al Tevere. Aspettando un'altra voce di malinconia, mentre "il vagabondo vento d'oriente fa crescere la luna". La malinconia d'un congedo segreto, e trasfigurato; per questa Roma dalle sette finestre accese quando tutti dormono, sette finestre che andavano soltanto ascoltate.

Eternate, infine, con la grazia bambina di chi sorride alla morte, perché avverandola nella carta la sovverte, e la domina.

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