recensione diMauro Fratta
I've seen the nights filled with bloodsport and pain, and the bodies obtained...
Paradiso amaro è il resoconto del lungo internamento dello scrittore, sergente dell'esercito sudafricano, catturato dopo la battaglia di Tobruk, dapprima in campi di prigionia italiani e, dopo l'8 settembre 1943, in un campo tedesco. Non si tratta però d'un memoriale di prigionia di tipo convenzionale. Ad Afrika non interessa tanto raccontare le vicissitudini all'interno del campo, dove la vita, d'altronde, si trascinava, fra l'ozio forzato, la fame e i parassiti, con pochi eventi di rilievo, quanto registrare con una sorta di sismografo interiore i lenti e lievi ma progressivi sommovimenti nella percezione degli altri e di sé, che la situazione di cattività e umiliazione apportava.
Nella società civile l'uomo è buono o cattivo, caritatevole od egoista, ma sempre dietro abiti e maschere costruiti dalle convenzioni e dalle convenienze sociali; dietro il filo spinato le vesti cadono a brandelli, ed anche la pulsione più rimossa può venire a galla: fra Tom, il narratore (allora si chiamava così), Douglas, il delicato infermiere cattolico pieno di attenzioni, e Danny, il pugile spigoloso e sanguigno, si scatena una guerra privata sempre più aperta - che per Douglas sarà particolarmente rovinosa - di possessività, desiderio erotico, amicizia, cameratismo, soggezione alle regole del mondo di fuori.
La scrittura dell'autore sudafricano è intensamente carnale, in maniera talvolta esasperata, quasi disturbante; ma non è la carnalità del sesso e della seduzione: i corpi infiacchiti dall'inedia non possono indulgere a piaceri che richiedono forza e salute, la seduzione richiede una ritualità inconciliabile coi comportamenti bruschi del campo. Il desiderio e l'amore precipitano in gesti semplici, ridotti all'osso, ma per ciò stesso di straziante intensità: lo stare vicini, il difendere l'amico da un sopruso, il dormire abbracciati per sconfiggere il freddo. E simile è la prosa: la sintassi slogata, l'accavallarsi visionario d'impressioni a volte disordinate dove la percezione del tempo e dello spazio si aggroviglia e ritorce, le parole che si arruffano e si affollano dense; l'energia di questo stile è l'esatto contrario dal fraseggiare macilento, dall'affettazione di semplicità di chi scrive in modo gracile perché ha poco da dire: qui il fluire spezzato, pieno di scarti e di accensioni repentine, esprime ad ogni riga un mondo pericoloso, teso, in ebollizione ma insieme spogliato d’ogni orpello, ridotto a roccia, sale, carne viva.
Le reazioni sono nette e dure: la follia conclamata in Douglas, le crisi di violenza in Danny. Come se ci si dovesse strappare a forza la pelle, per lasciar vedere la carne e il cuore che palpita indifeso, di cui essa costituisce un involucro falsante. Anche Camel, il pittore del campo, dice di voler ritrarre, a differenza di tutti gli altri, la carne e non la pelle che la vela e le fa schermo. Dalle descrizioni che ne fa Tom, le pitture di Camel dovrebbero somigliare a certi quadri di Bacon. Il quadro umano schizzato da Tatamkhulu Africa però mi ricorda piuttosto il Cristo prosciugato, esposto, quasi rattrappito in tutta la sua nuda impotenza, in braccio alla Madre, come lo dipinge Cosmé Tura; e forse così era lui, sorretto in braccio da Danny, nel supremo gesto d'amore totale, durante la marcia forzata dal Lager verso il sud della Germania, alla fine della guerra: per sopravvivere o morire uniti.