Transamerica

26 febbraio 2006

“La vita è molto più di una semplice addizione delle sue parti”, recita lo slogan di Transamerica, opera prima del regista Duncan Tucker che, dopo aver diretto il cortometraggio a tematica gay “The Mountain King”, si tuffa nel mondo del transessualismo e, nel campo inesplorato dalla cinematografia della genitorialità transessuale. La pellicola risulta un misto di commedia e dramma, confezionata con passione e sottile ironia, che descrive, in maniera toccante e realistica, i sentimenti di Stanley/Bree, le sue debolezze e le sue insicurezze nel rapporto con il suo corpo. Bree, dopo anni di risparmi, può finalmente realizzare il suo più grande desiderio: e cioè diventare donna e chiudere una volta per tutte i rapporti con Stanley, la sua parte maschile. L’inattesa scoperta di essere padre, ad una settimana dall’operazione, le sconvolgerà i piani e la porterà a rimettersi in gioco e a cercare di ricrearsi un ruolo nei confronti di un figlio di cui è padre biologico di sesso femminile e non madre. Toby, questo è il nome del figlio di Bree, rappresenta il passato con cui la donna vuole chiudere, ma non tutto è così semplice. Al loro incontro, a New York, la paura del rifiuto è così forte da portare Bree a mentire sulla sua reale identità, fingendosi una missionaria della chiesa del padre potenziale.


All’uscita dal carcere Toby è soltanto un perfetto sconosciuto che rischia di intralciare il ritorno a Los Angeles e la tanto sognata operazione; decisa a sbarazzarsene, Bree lo accompagna dal patrigno, senza essere a conoscenza delle molestie sessuali subite dal ragazzo proprio da parte del compagno di sua madre. Pessima idea. Ripartono insieme alla volta di Los Angeles, dove Toby ha intenzione di ottenere fama e far soldi come attore di film porno gay. Da questo momento in poi tutto il film poggerà sulla conoscenza reciproca vera e propria - fondamentale per il personaggio di Bree e ancor più per quello di Toby -, fatta di domande velate e verità toccanti, scoperte drammatiche e momenti imbarazzanti. Si passa dall’ospitalità offerta ai due viaggiatori da un gruppo di transessuali allegri, alle notti passate nei boschi tra serpenti, alcool e nuotate naturiste, fino ad arrivare all’incontro con l’eccentrica famiglia di Bree. Naturalmente Toby ancora non sa che Bree è in realtà la persona che guarda ogni giorno nell’unica foto che ritrae la sua famiglia. Sarà un’altra situazione imbarazzante a portare la verità a galla.

Un’altra dote del regista è quella di mostrarci le difficoltà di un transessuale di uscire allo scoperto. Bree si definisce “non dichiarata” e quando viene interrogata riguardo la sua felicità liquida la domanda con un sospirato “lo sarò”. Più volte afferma di non aver più una famiglia e ancor più spesso dichiara la morte di Stanley. I problemi, però, non possono giacer in silenzio per sempre e Bree si troverà presto a fare i conti con i suoi genitori che, come spesso accade, non riescono a comprendere la vera natura del loro figlio. Sarà di fronte ad un atto di violenza che la signora Elizabeth abbraccerà per la prima volta sua figlia e le darà i soldi necessari per il ritorno a casa, acconsentendo così all’operazione definitiva. Da sottolineare è anche la reazione di Bree di fronte all’invito ad indossare un boa di struzzo: “non sono un travestito, sono una transessuale”. Esplicativo.


Degna di nota è anche la distruzione del luogo comune che vede i transessuali accostati al mondo della droga: non è così e Duncan Tucker ci mostra proprio una Bree indignata e disgustata dall’uso che il figlio fa della tanto famosa polverina bianca.


Il regista riesce, quindi, a toccare tutti i tasti del pianoforte, a volte facendo un po’ troppa pressione: il ragazzo è stato molestato dal compagno di sua madre, successivamente morta suicida. La continua mancanza di soldi porta il ragazzo a vendere droga, usarla, prostituirsi e rubare. A questo si aggiunge la famiglia di Bree, composta da un padre ninfomane, da una sorella ex-alcolizzata e da una madre ossessionata dal giudizio altrui e incapace di accettare la condizione del figlio.


Nonostante ciò il film non risulta mai eccessivo e riesce a far immedesimare lo spettatore nei vari personaggi, portandolo, inevitabilmente, a commuoversi diverse volte. Disturbante la scena nel parcheggio del ristorante, quando Bree ordina il pranzo e Toby si prostituisce con un camionista per racimolare qualche spicciolo.


Altre scene memorabili riguardano le peripezie atte a nascondere il cambiamento di voce di Bree e la scoperta della vera identità della donna da parte del figlio.


Da applauso l’utilizzo delle musiche e dei personaggi secondari, ottimi i paesaggi rurali e nuovi al pubblico, ma il merito più grande va a Felicity Huffman – attrice conosciuta in Italia grazie al personaggio di Lynette nella serie TV Desperate Housewives – che si dimostra un’ottima attrice, riuscendo a modulare la voce e cambiare le posture del corpo in maniera magistrale, interpretando, così, il personaggio di una trans in modo convincente. In Italia non avremo la possibilità, almeno fino all’uscita del film in DVD, di godere appieno della sua interpretazione, ma il doppiaggio di Angiola Baggi rende davvero giustizia all’attrice e alle sue doti.


Transamerica si è guadagnato due nomination agli Oscar 2006 per la miglior canzone originale e miglior attrice protagonista. Tra i numerosi premi precedentemente vinti, ricordiamo quello per la miglior sceneggiatura al Deauville Film Festival, miglior attrice protagonista ai Golden Globes, ai Southeastern Film Critics Association Awards e al Tribeca Film Festival.


Qualcuno diceva che non esistono storie straordinarie o ordinarie, ma che lo diventano negli occhi di chi le guarda. Niente di più vero. Un film assolutamente da vedere.

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TransamericaMauro Giori
01/05/2006

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