recensione diMauro Giori
Transamerica
È chiaro fin dall'inizio che Bree, transessuale alle soglie dell'operazione per cambiare sesso, ha ancora un bel tratto di percorso umano da compiere prima di trovare la pace interiore cui aspira. Il modo più semplice di far compiere ai personaggi i loro percorsi interiori è quello di farli viaggiare, esplicitando sulla cartina geografica le loro peregrinazioni meditabonde. Così Bree, decisamente controvoglia, si trova a macinare chilometri quando scopre di avere un figlio, frutto dell'unico rapporto sessuale della sua vita. Inoltre, l'America è grande, e ovviamente se c'è un figlio da recuperare sta dall'altra parte della nazione: Bree vive a Los Angeles e deve andare a tirar fuori di prigione Toby a New York. Che, e non sarà un caso, sono anche le due patrie del cinema americano, quello hollywoodiano, dal quale il film sembra prendere le mosse, e quello indipendente-underground, da cui sembra uscire Toby, procace adolescente sbandato, eroinomane, marchetta, aspirante attore porno, delinquente all'occasione.
Se poi vogliamo misurare da che parte penda l'ago della bilancia, è piuttosto dalla prima che dalla seconda. Toby, ad esempio, è dolcissimo, comprensivo e bisognoso d'affetto, fin troppo pieno di buoni propositi, anche se nella sua apparente ingenuità è molto più navigato del padre. Bree, dal canto suo, mostra interessanti risvolti psicologici ma tutto sommato rimane un personaggio didascalico, utile a istruire con discrezione lo spettatore medio su alcuni aspetti poco divulgati della transessualità (i più diversi: il fatto, ad esempio, che non abbia nulla a che fare con il travestitismo, o il fatto che l'operazione per cambiare sesso non consista semplicemente in una asportazione dei genitali). Ma soprattutto Bree attraversa il cuore conservatore dell'America senza che nessuno trovi nulla da ridire su di lei (tranne una madre fin troppo colorita e infine innocua), anche se i personaggi più simpatetici sono indiani e messicani.
A metà strada, ma ancora più verso Hollywood che verso il cinema indipendente, è il genere stesso del road movie, ripreso nei suoi standard formali (l'attraversamento della provincia, il contatto con la natura e con il paesaggio, ecc.) e simbolici (il viaggio come iniziazione, scoperta, approfondimento del legame, tradimento, ricerca delle radici, ecc.). A tratti Bree sembra ricalcare le orme degli eroi di Priscilla, che aveva già riletto il genere in chiave omo-trans (e con un rapporto padre-figlio da recuperare) celando dietro la patina comica inquietudini, contrasti sociali e drammi profondi. Il personaggio di Toby invece, dolce e sbandato, marchettaro bisognoso di affetto e ben disposto a concedere un corpo statuario di cui non fa certo mistero lungo tutto il film, sembra strizzare l'occhio al Mike di Belli e dannati, non a caso un altro road movie.
Il film è diretto dall'esordiente Duncan Tucker e interpretato da una Felicity Huffman sorprendentemente lontana dal personaggio che l'ha recentemente resa famosa, quella della supermamma lavoratrice in Desperate Housewives.