recensione diAndrea Meroni
Mi faccia causa
Aggiornamento non indispensabile del gustoso Un giorno in pretura del 1953, Mi faccia causa di Steno traghetta lo spettatore in un'Italia a colori ma nettamente sbiadita. L'aula della pretura dove si dipanano le varie storielle è – prevedibilmente – una succursale della piazza del mercato, in cui si dibatte sui rincari del filetto, ci si lagna di quanto sia diventato pericoloso uscire di sera (perché ormai ci sono ladri, puttane e gay dappertutto) e si professa il proprio credo calcistico.
Il catalogo delle dispute giudiziarie, supervisionate dall'accomodante pretore Christian De Sica, è di livello variamente basso: si va dal fastidioso (l'episodio con lo starnazzante Giorgio Bracardi, compositore megalomane che ha copiato inconsapevolmente 'O sole mio) al garbato/lezioso (Gigi Proietti e Enrico Montesano alle prese, rispettivamente, con marmocchi e cagnolini), passando per il superfluo (il siparietto con lo iettatore).
L'unico episodio interessante in questa sede è, guarda caso, il momento più autenticamente (stra)cult di tutto il film: il gay ufficiale del cinema italiano, il Principe Franco Caracciolo, interpreta un eterosessualissimo padre di numerosa prole, il quale però si atteggia esattamente... come Franco Caracciolo, coi suoi falsetti un po' nasali, i suoi polsi irreparabilmente rotti e le sue boccucce increspate. Data la sua effeminatezza, il padre di famiglia – che si chiama, ahilui, Umberto Recchia – viene appellato “frociaccio” nel corso di una lite all'ufficio postale, e per questo querela il villanzone che lo ha ingiustamente “accusato” di omosessualità.
A garantire della sua “normalità” viene convocato un impiegato delle poste, il quale – se è vero che le apparenze ingannano – è ancor più eterosessuale di Recchia; a interpretarlo c'è Roberto David, il quale aveva ricoperto una particina da omosessuale nella “pensione dei froci” di Sono fotogenico (e che sarà intervistato nel 2014, in qualità di anziano gay, nel documentario Felice chi è diverso di Gianni Amelio).
A completare il quadro c'è l'avvocato di Recchia, il quale – tormentando la propria mantella proprio come Loredana Bertè fa coi risvolti delle sue minigonne – si lancia in un'energica arringa («Che cos'è la calunnia? È un venticiuello...»). A incarnare questo formidabile leguleio, che lascia esterrefatti pretore e cancellieri con la sua esuberante gestualità da drag-queen tribunalizia, c'è il costumista di fiducia di Steno, Silvio Laurenzi. Quest'ultimo – classe 1936 – è anche uno dei decani delle comparsate gaye nel cinema italiano (lo si intravedeva di sfuggita già nel reenactment degli storici “Balletti Verdi” bresciani nell'episodio Il complesso della schiava nubiana de I complessi, del 1965).
Volendo considerare questo momento del film esclusivamente nella prospettiva del guilty pleasure, si tratta di un bel momento di autoironia del cinema popolare italiano, che – nella sua maniera disinvolta e caciarona – celebra, in un certo senso, le proprie “colonne” del reparto omosex.