recensione di Mauro Giori
Ma a Oz non c'era la Strega dell'Ovest?
C'è qualcosa in Meg, il film la cui produzione è al centro di questa miniserie, che non convince Henry Willson, uno dei più famigerati agenti di Hollywood, che si è messo in testa di fare il produttore. Guarda e riguarda il girato, ma non ne viene a capo, finché ha un'intuizione: manca una scena che dia davvero un senso alla protagonista e al suo gesto. Mi sono sentito un po' allo stesso modo: c'è qualcosa che non quadra in questa serie piena di buone intenzioni, e credo che Willson sarebbe d'accordo con me.
Non che ci tenga: Willson era una persona terribile e la serie non ha reticenze nel metterne in luce i difetti, specialmente quelli che riguardano gli abusi sui giovani aspiranti attori, soprattutto su quelli privi di talento.
Anziché finire in un'aula di tribunale appoggiato a un deambulatore, Willson qui si ravvede e chiede scusa a tutti. Nel suo caso Ian Brennan e Ryan Murphy hanno cercato di evitare il difetto di Meg, pensando a una scena che dovrebbe spiegarci perché si arrivi a tanto (quella in cui il personaggio si commuove raccontando del suo unico amore, deceduto in un incidente). Insomma era solo una persona sfortunata che aveva compensato costringendo tutti gli aspiranti attori di Hollywood a passare dal suo letto, Rock Hudson in testa, e allacciando rapporti con la mafia e con la stampa scandalistica in modo da poter ricattare e minacciare mezza industria.
Tuttavia, con buona pace di Brennan e Murphy, non credo che una piccola scena basti a spiegare un simile personaggio, né tanto meno a rendere credibile la sua conversione. Il problema della serie è tutto qui. È abbastanza gradevole nello svolgimento e ostenta con innegabile generosità corpi maschili tirati a lucido, complice il buon clima di Hollywood (cui si deve non a caso il fatto che l'industria del cinema abbia messo le tende proprio lì). Ma non è credibile.
Non che lo voglia essere: si tratta evidentemente di una favola ucronica compensativa per ciò che tutte le minoranze di questo mondo hanno dovuto subire da Hollywood. Ecco, appunto, tutte le minoranze (in termini di potere e di peso sociale): gay, lesbiche, neri, cinesi, e ovviamente donne, con tutti i possibili incroci. E a tutti i torti subiti da tutte queste minoranze si rimedia con un film. Perché i film cambiano il mondo, dice Eleanore Roosevelt in una scena in cui improvvisamente si appassiona al cinema, per cinque minuti.
Quando dico che Hollywood non è credibile intendo semplicemente che per fare presa sullo spettatore e lasciare un segno avrebbe avuto bisogno di essere almeno un poco più plausibile, più verosimile. Se si fosse posto qualche limite in questa rappresentazione in rosa della storia come avrebbe potuto essere se..., sarebbe stata senz'altro più incisiva e appassionante. Le ultime tre puntate si seguono invece solo per vedere se davvero gli autori hanno pensato a una strada di mattoni gialli tutta in discesa, per tutti. L'hanno pensato davvero.
La questione è che anche nelle fiabe, quelle fatte bene, al lieto fine si arriva dopo qualche tribolazione. E tribolazione può essere un eufemismo non da poco, specialmente se dietro c'è gente come i fratelli Grimm. Ma Brennan e Murphy hanno un'idea della fiaba che assomiglia più a quella delle riscritture per genitori iperprotettivi, e che i genitori iperprotettivi siano il male peggiore che possa capitare nella vita lo sanno anche i sassi.
La prima metà della serie, con la ricostruzione piuttosto meticolosa della Hollywood di fine anni Quaranta, dall'omertà del divismo ai giri di prostituzione maschile, dal mercato delle riviste scandalistiche alle feste orgiastiche di Cukor, ha una sua piacevole vena archeologica, così come è piacevole la transizione non troppo chiassosa dalla storia alla sua reinvenzione. Dal momento che sin dall'inizio personaggi e fatti autentici sono mischiati ad altri inventati, non è immediatamente evidente che ci ritroviamo in un percorso parallelo di una storia possibile: la storia appunto come avrebbe potuto essere se... Se Rock Hudson avesse fatto coming out nel 1949 invece di subire l'outing dell'AIDS quarant'anni dopo; se fosse stato messo allora in cantiere un film con un'attrice nera protagonista e avesse pure vinto un Oscar, invece di dover aspettare Whoopi Goldberg nel 1990; se uno sceneggiatore avesse ringraziato il suo fidanzato alla cerimonia dell'Accademy invece di aspettare il nuovo millennio. Sarebbe bastato ad esempio rendere più contrastata proprio la reazione dell'industria. Invece non manca nemmeno una pioggia di Oscar a premiare praticamente tutti i partecipanti al progetto rivoluzionario di Meg, che in più registra i maggiori incassi di sempre.
Impossibile non pensare alla misura con cui Tarantino riesce a rendere commovente la sua riscrittura della storia hollywoodiana in Once Upon a Time... in Hollywood, usandone con estrema finezza ironica l'immaginario iper-eroico. Con qualche sottigliezza anche questa serie avrebbe potuto essere pungente, invece preferisce ostentare la mano pesante di una militanza politicamente corretta: persino il produttore quando si risveglia dal coma si scopre paladino dei diritti di tutti, soprattutto di quelli della moglie. Va bene, proprio questo in fondo ci dice che siamo in un'altra dimensione, una dimensione di sogno, non siamo più a Hollywood ma a Oz. Persino a Oz però il mago non era proprio un mago e c'era una strega. Che immagino qui debba essere l'avvocato del produttore, il quale alla fine di una puntata distrugge il film. E ho effettivamente creduto per un attimo che quanto temevo la serie avesse in serbo (e che in effetti ci propina) in realtà prendesse una strada diversa. Ma solo per un attimo, perché già alla prima scena della puntata successiva scopriamo che del film era stata fatta una copia. Oltretutto, trattandosi di una serie Netflix (immediatamente disponibile nella sua interezza), il cliffhanger tra una puntata e l'altra è praticamente inutile, un residuo di vecchie retoriche ormai fuori luogo se usate in questo modo, singolarmente rozzo considerata l'esperienza degli autori, che avevano già firmato insieme Glee, Scream Queens e The Politician.
Ugualmente Willson minaccia di manomettere il montaggio, ma in realtà alla fine se ne esce semplicemente con un buon consiglio, quello da cui siamo partiti, quello che un qualsiasi Willson di oggi avrebbe dovuto dare a Brennan e Murphy. Risultato: non vediamo nulla nemmeno di quegli attriti di cui si fa un gran parlare, quali reazioni oltremodo minacciose dei conservatori, dei razzisti e degli omofobi, che si riducono a una telefonata che non sentiamo nemmeno, a un paio di croci bruciate e a un gruppetto di persone che protestano in modo tutto sommato ordinato fuori dai cancelli dello studio.
E così, quando un Willson improvvisamente redento si intestardisce sul progetto di fare il primo film con una coppia gay protagonista, invece di godermela ho solo sentito l'improvviso bisogno di controllare il tasso glicemico.