recensione di Mauro Giori
O fantasma
L'aspetto più interessante del film sta in ciò che offre senza mediazioni e censure, liberandosi (ma non sempre) di decennali convenzioni pruriginose: nudo in quantità e scene di sesso comprensive di momenti hard quali, fuori dai limiti del cinema pornografico, non si erano quasi mai visti, e che ovviamente hanno suscitato isterie tra le suorine festivaliere.
Interessante non è il nudo in sé (questione di gusti personali che esulano dai compiti della critica) ma la fusione tra modi e forme da film da circuito regolare e pornografia, tenuta però a una certa distanza.
Lo si vede molto bene in quella che è forse la scelta più interessante del regista: mostrarci in modo ossessivo il voyeurismo del protagonista senza permetterci una totale identificazione con lui, né alcuna soddisfazione visiva nel momento in cui esercita quel voyeurismo. Quando vediamo Sergio spiare il suo "fantasma" - in piscina, poi dalla finestra di casa sua di notte, ecc. - non ci è mai concesso il raccordo più ovvio, non solo in un film narrativo qualsiasi, ma anche in un porno, quello cioè sulla soggettiva, ovvero il passaggio dall'inquadratura che ci mostra il personaggio che spia a un'inquadratura che ci mostra cosa sta vedendo. Questa curiosità inevitabile dello spettatore è sistematicamente frustrata da Rodriguez e ciò equivale a una negazione sostanziale della pornografia: noi non vediamo quasi mai con soddisfacente chiarezza ciò che un porno esibirebbe nel modo più diretto ed esplicito.
Tutto ciò risulta già chiaro dal rapporto occasionale di Sergio con un poliziotto legato in una macchina all'inizio del film.
Ma il giovane regista portoghese, al suo primo lungometraggio, non sa costruire nulla di realmente significativo intorno a questo interessante gioco-riflessione sulla pornografia, sul desiderio e sul cinema stesso. Lo spettatore viene così sottoposto a un puro esercizio di stile sostanzialmente kitsch. Rodrigues fa di tutto per imitare (pasticciando molto) il cinema d'arte moderno: punta al simbolismo girando quasi tutto di notte, riempie il film di tempi morti, di ripetizioni e di silenzi (il finale è addirittura muto), esaspera fino al limite l'allegoricità dei rapporti umani, ecc. Così facendo insegue un'estetica della noia (strada quanto mai impervia) che perde per strada l'estetica e consegna al destinatario solo la noia di un'esistenza masochista (non solo nelle forme dell'erotismo che il protagonista insegue con ossessivo e compiaciuto feticismo) votata senza motivo al grigiore, allo spreco e all'annullamento. E qui si cade paradossalmente nel deja vu: paradossalmente, dico, perché un film che sembra innovativo e rivoluzionario nelle forme della messinscena in realtà si rivela alla fine molto più innocuo e tradizionale di quel che potrebbe sembrare. Se anche ha qualcosa di "innovativo" da mostrare, non ha nulla di significativo o di originale da dire, né sa dire niente sul nulla: sa solo ripetere il vuoto su cui altri registi hanno saputo lavorare con maggiore eloquenza e intelligenza.
O fantasma si riduce così a una sorta di incrocio tra Ming-Liang (senza possederne nemmeno lontanamente la straordinaria eloquenza visiva) e Catherine Breillat (il cui Romance, l'anno prima, fece alquanto discutere proprio per la sua commistione di scene hard - tra gli interpreti c'era Rocco Siffredi - e pretese da film d'arte).
Non sorprende che il regista, a cinque anni ormai da questo suo primo film presto dimenticato, non abbia ancora fatto altro.