recensione diMauro Giori
Il pasto nudo
Quest'opera del "primo Burroughs" è rimasta la sua più celebre e citata, e ha conosciuto un rilancio anche editoriale in occasione del discusso film di David Cronenberg.
Si tratta di un romanzo piuttosto complesso, segnato da un immaginario profondamente personale e ulteriormente complicato dalla casualità dell'intreccio (dovuta, almeno in parte, alle sperimentazioni tecniche del "cut-up"). Burroughs vi riversa il caos della propria vita, che stava allora cercando di riordinare e che era stata segnata, tra l'altro, dall'abbondante uso di droghe, dall'uxoricidio, dal profondo - e fortunatamente per lui temporaneo - disagio nei confronti della propria omosessualità, che aveva invano tentato di curare mediante la psicanalisi, dai timori nei confronti di una società americana vista come spaventosamente vicina al totalitarismo.
Sono proprio questi gli elementi che sostanziano ogni pagina del Pasto nudo, capace ancora oggi di disorientare il lettore, anzi soprattutto oggi. Il lettore odierno, avvezzo ormai a un ritorno alla narratività e a un riflusso dell'avanguardia, non si troverà certamente a suo agio con l'esposione di visioni violente, irrazionali e politicamente scorrettissime che Burroughs gli riserva. Sicché anche il lettore omosessuale saprà probabilmente orientarsi con difficoltà in questi meandri sadomasochisti dai toni cruenti e orrorosi, abituato com'è all'ondata di raccontini viceversa politicamente corretti sostanziati da amorini, passioncine, moderati erotismi, ritrattini generazionali.
Per chi non ami questo tipo di produzione, Il pasto nudo può rappresentare paradossalmente una boccata d'ossigeno. Nonostante la sua disarticolazione, il suo stile ruvido, le sue immagini aggressive, le sue ossessioni così private, così (forse) datate, così difficilmente condivisibili.
L'ossessione è proprio la cifra stilistica del romanzo, ciò che lo domina e lo forma al di là di ogni apparente esigenza razionale. Non si spiegano altrimenti la sua destrutturazione narrativa, il ritorno asistematico di frasi, brani, immagini, la precisione di alcuni dettagli che emergono da un magma sfumato e indistinto, ripetuti con maniacale morbosità (le scene di sesso, per esempio, sono costruite quasi sempre allo stesso modo, con gli stessi dettagli anatomici, le stesse fasi, gli stessi significati, persino le stesse sensazioni, e ovviamente il medesimo immaginario sadomasochista e vampiristico).
Ma l'immaginario di Burroughs è anche squisitamente ironico. Humor nero, certo, ma indispensabile a decodificare il romanzo, da questo punto di vista decisamente kafkiano (si pensi ad esempio alla persecuzione del gay alla fine, da parte degli interrogatori di Benway).
Inoltre il tessuto violento, allucinato, ossessivamente scatologico, non basta a dissimulare l'evidente finalità pedagogica del romanzo, scritto negli anni '50 con fini autoterapeutici. Il privato di Burroughs vi compare con impressionante trasparenza: la fascinazione per le droghe, l'odio per l'effeminatezza (considerata una colpevole concessione agli stereotipi repressivi della società americana), l'incubo del totalitarismo, della dittatura, della repressione, della politica e dei media come forme e strumenti di conservazione. Anche se queste fobie hanno risvolti privati (la paura del matriarcato e della dittatura come repressione sessuale omofoba), è evidente il riflesso politico degli anni in cui il romanzo è scritto, così come delle esperienze personali dei viaggi dello scrittore, in particolare di quelli in Sudamerica (benché Interzona rifletta soprattutto il suo soggiorno a Tangeri).
Di certo non è un romanzo per tutti.