recensione diVari
Pasto nudo, Il - "Niente è vero. Tutto è permesso".
Recensione di William Bruno.
"Niente è vero. Tutto è permesso"
Pubblicato nel 1959, scritto sotto l'uso di droghe, alcool e l'incoraggiamento dei due amici Kerouac e Ginsberg (gli altri due pilastri della beat-generation), questo libro è un lasciapassare per l'inferno a disposizione di tutti.
Scritto in buona parte con una tecnica anticipatoria del cut-up (estremizzazione del concetto di destrutturazione verbale, caratterizzato dal rimontaggio di un testo in modo apparentemente caotico e visionario fino a generare un effetto allucinatorio e a costringere il lettore a ricollegare in modo sensato frasi e parole, se non addirittura capitoli), affronta temi quali la morte, il cancro, la droga, la pena capitale, il controllo delle menti, senza che vi sia una trama: solo qualche personaggio-simbolo ricorrente (il crudele dottor Benway) che ci guida in un caleidoscopico mondo di orrore e violenza così estremo e ripugnante da risultare ad oggi insuperato.
La volontà politica di Burroughs di denunciare i soprusi del potere, della lobby medica, dei moralisti sessuali e i danni della droga (nonostante egli stesso ne avesse sperimentato di ogni tipo) lo spinse a scrivere un libro caustico e violento, in cui demolire visivamente l'apparenza falsa di un mondo incatenato e reso schiavo, di cui lui vuole mostrare tutto l'orrore.
Tra città ai confini del mondo reale (Annexia), dimensioni solo mentali (Interzona) e mostri che si nutrono di carne liquefatta, il lettore viene trascinato in una dimensione così allucinata e spaventosa che può sentire il rumore dei suoi schemi mentali mentre vengono frantumati da una scrittura frenetica, in cui spesso la punteggiatura è eliminata per lasciar sfogo ad un flusso ininterrotto di visioni annichilenti.
Processato per oscenità, questo libro divenne il punto di riferimento per buona parte di una generazione che rifiutava il concetto di sistema in ogni sua forma.
Il pasto nudo è l'istante raggelato in cui si osserva quello che rimane sulla forchetta. E Burroughs decise di usare le parole come tante forchette da piantare negli occhi e nel cervello dei lettori, per svegliarli od ucciderli, se non avessero sopportato questa febbrile descrizione della realtà.
Allen Ginsberg lo definì un romanzo sconfinato che avrebbe fatto perdere la testa a tutti, mentre Norman Mailer, durante il processo, lo definì "un semplice ritratto dell'inferno, è una visione di come l'umanità agirebbe se fosse completamente separata dall'eternità".
Un'umanità che non rivolge mai lo sguardo verso l'alto se non per esalare l'ultimo rantolo di una vita massacrata dalle macchine di tortura fisica e mentale che il sistema ha posto intorno a noi.
Cronenberg tentò l'impresa impossibile di trarre un film da questo magma letterario, mischiando elementi biografici della vita di Burroughs (l'ossessione per aver ucciso accidentalmente la moglie con un fucile da caccia, che ritorna in crudeli scene da cinico Guglielmo Tell, o il suo lavoro di disinfestatore) con personaggi e situazioni tratte dal libro, per raccontare la scrittura di Burroughs, in realtà un'estensione necessaria della sua vita, votata a descrivere campi inesplorati della psiche umana e a distruggere ogni tabù.
Le macchine da scrivere si trasformano in scarafaggi parlanti, in mostri stupratori od orride creature che al premere dei tasti secernono liquidi, da escrescenze tubiformi, gemendo di piacere.
Il confine tra la realtà della città di Tangeri e l'allucinazione di Annexia cade definitivamente, e alla fine non si distinguono più i piani inventati da quelli reali.
Il processo della creazione artistica come una sorta di droga organica che si nutre della nostra psiche fino a portarci alla follia.
"Non c'eravate per Il Principio.
Non ci sarete per La Fine.
La vostra conoscenza di quello che sta succedendo può essere soltanto superficiale e relativa".