Il lavoro storico di Benadusi è importante per più motivi: anzitutto, chiaramente, per il fatto stesso di aver affrontato un argomento, la repressione dell'omosessualità e la persecuzione degli omosessuali durante il fascismo, su cui la storiografia finora era stata silente o molto approssimativa; inoltre per la cura con cui mette in evidenza sia la continuità nell'opera repressiva tra il fascismo e lo Stato liberale pre-fascista, sia il punto di rottura apportato proprio dal fascismo con la sua volontà di creare un "uomo nuovo" virile, guerriero, sprezzante delle comodità borghesi e obbediente alle gerarchie; e per l'analisi dei metodi repressivi, il più comune dei quali non fu il confino di polizia, di cui pure centinaia di omosessuali italiani furono vittime (scelti però, per non dare troppo scandalo e per preservare l'immagine "virile e sana" dell'Italia, tra prostituti, travestiti e poveracci soprattutto con lo stigma del "passivo"), bensì il silenzio: di omosessualità non si doveva parlare, preferibilmente neanche dal punto di vista scientifico. Benadusi avanza l'ipotesi che la politica fascista, raramente brutale, ma egualmente feroce proprio in quanto diffusa e strisciante, abbia pesantemente condizionato la percezione dell'essere gay anche nei decenni del dopoguerra: certamente, incitando gl'italiani alla dissimulazione, all'atteggiarsi ad "insospettabili", al vivere perennemente in maschera anche in assenza di sanzioni penali che punissero i rapporti fra persone dello stesso sesso, essa consolidò vecchi pregiudizi sulla virilità e l'effeminatezza e cooperò a rafforzare quel sentimento di paura, vergogna e mancanza di stima di sé che fino ad anni molto recenti ha paralizzato gran parte degli omosessuali nel nostro paese. Il saggio ha una breve prefazione di un illustre storico del fascismo, Emilio Gentile, la quale però, non che aggiungere qualcosa a un libro già in sé molto ricco, molto documentato e molto chiaro, si perde in piccole polemiche esegetiche piuttosto fuori luogo.