The Peach is the new Apple? Ma non macchiava?

6 febbraio 2018

Fra le tante dichiarazioni di Guadagnino intorno a Chiamami col tuo nome che mi hanno irritato, forse quella che mi ha irritato di più è: «L’Italia è pronta per l’amore di Elio e Oliver». Non che il cinema debba per forza provocare o contribuire al progresso civile e mentale del paese, ma nel compiacimento di aver fatto esattamente quello che ti aspetti che il pubblico medio possa digerire, né più né meno (cioè un film innocuo, cattivante, compiacente), come fosse impresa di cui menar vanto, ecco, qualcosa mi pare stonare. Ma è una dichiarazione molto significativa, che si accoppia perfettamente con altre sciocchezze fatte circolare, delle quali le mie preferite sono: «Non è proprio una storia gay, ma piuttosto una storia di sentimenti e formazione», come non potesse essere entrambe le cose; e ancora meglio: «Non penso che Elio sia per forza gay. Non ha ancora trovato il suo posto nel mondo. Posso dire che credo inizi nuovamente un’intensa relazione con Marzia». In altre parole, l’Italia è pronta per un film in cui l’omosessualità è solo una fase dell’adolescenza, una sperimentazione dell’età del disordine. Caro Guadagnino, l’Italia era pronta per queste cose nel 1945, Samperi aveva già fatto a Saba nel 1978 quello che tu minacci di fare a Aciman oggi con il tuo sequel, e la storia del cinema è piena di tuoi colleghi che hanno rilasciato dichiarazioni identiche nascondendo la mano dopo aver tirato il sasso (basta sfogliare Vito Russo, che ne inventaria parecchie), e davvero oggi, come dici tu, il tuo è un sassolino persino per l’Italia.

Il film è in fondo un po’ tutto così, ambivalente in modo talora calcolato nel raccontare una storia d’amore tra due ragazzi ambientata in un’Italia disegnata come una cartolina sbiadita dei tempi del grand tour. Ma questo si deve a Aciman, e un po’ a Ivory: non a caso si sente qualcosa del suo Camera con vista, specialmente nell’ultima parte a Bergamo. Lo sguardo è insomma un po’ quello dello straniero su un paese museale, dove tutti vivono nell’ozio e reperti dell’antico spuntano ovunque come erbacce. Il padre di Elio è emblematico: professore di filosofia nel libro, sommo esperto di antichità nel film, vive in un otium perenne al punto da sconfinare nell’ozio vero e proprio. Il suo mestiere consiste nel riposare, nel leggere il giornale, nel dispensare etimologie farlocche, nel guardare diapositive esibendo un commento su Prassitele che avrebbe potuto fare persino la mia professoressa di arte del liceo (che di arte non sapeva niente), nel riposare, nel fare una gita a Sirmione per vedere una statua riemersa dalle acque su cui in realtà poi non ha nulla da dire. Bofonchia le sue battute con il bonario paternalismo di un Robin Williams in tono minore, sicché mi riesce un po’ stucchevole anche quando fa la sua tirata finale a Elio. Certo vorrebbe essere un discorso di apertura mentale, e dovrebbe significare: “mi sta bene se hai avuto una storia con Oliver”. Però mi sembra significhi anche “è finita, rassegnati, ti è già andata bene che hai avuto qualche giorno per scopare, io da giovane manco quello”. E se avesse detto anche una volta sola di più “amicizia” sapendo benissimo di cosa stava parlando, avrei smesso di vedere il film. Nemmeno ventila l’idea che si possa tentare un modo per far continuare la cosa (gli mancassero i soldi per spedire Elio a studiare in America, ad esempio…). Non si prende cioè nemmeno in considerazione che l’amore tra i due maschi possa essere qualcosa destinato a un futuro, o possa dirsi amore. Sì, caro Guadagnino, sono d’accordo: l’Italia è pronta per questo e anche per il coraggiosissimo sequel cui stai pensando.

Tra l’altro, mi chiedo se Guadagnino si sia reso conto che scegliendo il trentunenne Hammer (che di anni ne mostra qualcuno di più) per la parte di quello che dovrebbe essere un dottorando (il cui ruolo esatto nel film infatti emerge piuttosto confuso: sembra più un giovane collega di papà che un suo studente) e il ventiduenne Chalamet (che di anni ne mostra qualcuno di meno) nella sostanza raddoppia la differenza di età che c'era nel romanzo e porta il rapporto tra i due più vicino a quello della pederastia, non tanto classica quanto come l’Italia trovava rassicurante pensarla già negli anni Cinquanta. Ma non mi ripeto sulle valutazioni.

In ogni caso la scelta di Chalamet rimane la più felice del film (insieme alla colonna sonora): la sua interpretazione da sola merita la visione, ed è toccante in modo sublime quando telefona alla mamma e gli si rompe la voce in gola (forse un poco anche perché, come lo spettatore, non sa come da Bergamo sia finito a Clusone…). Per tutto il film sono i suoi movimenti, i suoi sguardi, il suo deambulare talora un po’ dinoccolato, i suoi scatti, a rendere credibile il suo ritratto d’adolescente sin nelle battute più artefatte e letterarie, perché si tratta di un adolescente che sulla carta non era affatto facile rendere credibile (voglio dire, è uno che passa l’estate a suonare Bach come l’avrebbe suonato Busoni se avesse pensato a Liszt…). Hammer dal canto suo fa quello che può, ma il suo è il ruolo della bella statuina: dubito avrebbe retto i quattro minuti finali davanti al camino come Chalamet riesce a fare in modo addirittura sconcertante.

C’è un’altra dichiarazione di Guadagnino che merita menzione: «volevo raccontare un idillio e, in genere, in un idillio non si vedono molti organi fisici. Mi interessavano più in questo caso le emozioni, i sentimenti». Qualcuno gli ha infatti chiesto dove sia finito tutto l’eros turbolento, esplicito e talora un po’ scabro di Aciman. E di Ivory, se dobbiamo credere all’anziano sceneggiatore del film, che dice di non aver tralasciato nulla e di non aver gradito non ritrovare nel film il suo ardimento. In effetti il suo Maurice aveva osato molto di più con il nudo. Nel 1987. Non che qui manchi una certa qual fisicità, anche ben resa nelle sue tensioni, ma si sente l’artificiosità del limite imposto. Guadagnino ha persino mantenuto la famigerata pesca, di cui Elio fa spremuta con estremo sprezzo del memento con cui mia madre mi ha ossessionato da piccolo, e cioè che la pesca macchia (il che è strano se si considera come Elio sia invece ossessionato dall’idea che la domestica di casa vada a caccia dei segni anche minimi di una qualsiasi indebita coniunctio). Forse se l’avesse saputo non se la sarebbe infilata nelle mutande ma le avrebbe tolte. Ma per questo l’Italia (di Guadagnino) non è pronta: meglio una lavatrice in più. Così come non è evidentemente pronta per il pianto di Elio, che nel romanzo è un pianto di commozione e di riconoscenza per come Oliver gusta la pesca inglobando in sé qualcosa di Elio. Qui diventa una crisi isterica generata da infantile imbarazzo. Peccato.

Da quanto precede forse non si è capito, quindi lo esplicito: a me il film, nel suo complesso, non è dispiaciuto, al netto dell'oleografia della provincia italiana. Quello che non mi piace è il modo di pensare di Guadagnino (ma questo invece, forse, lo si è intuito), sia che si tratti del suo effettivo pensiero sia che si tratti "solo" di una propensione a compiacere l'uditorio con dichiarazioni rassicuranti. Non ho trovato nemmeno male il romanzo di Aciman. E poi la mia generazione ha un debito di riconoscenza nei confronti dell’Ivory degli anni Ottanta tale da essere disposta a perdonargli tutto quello che ha fatto dopo Quello che resta del giorno. Ecco, Chiamami col tuo nome mi sembra un film decisamente nelle sue corde. Certo più nelle sue che in quelle di Guadagnino: non lo dico per ostilità rispetto al regista, ma perché mi sembra che se ha centrato il successo è proprio grazie a una sceneggiatura pienamente lineare, impeccabilmente classica, perfetta per convincere il pubblico d’oltreoceano, sicché viene meno quello scomposto ma sano desiderio di sperimentare fino alla bizzarria che l’ha fatto uscire dai binari in A bigger splash, irrisolto e un po’ pretenzioso, o che ha finito con l’irrigidirlo in Io sono l’amore, dove persino Tilda Swinton riesce mummificata dalla costrizione di mitragliare le battute in un Italiano naturale quanto quello degli annunci ferroviari, per tacere della macchina da presa, ingessata negli angusti spazi della splendida Villa Necchi Campiglio: Portaluppi, da quel genio che era, s’è preso pure la soddisfazione postuma di mangiarsi il film.

Insomma, per me Chiamami col tuo nome è più un film di Ivory, di un novantenne con una vena romantica e una senile indisponibilità a rinunciare all’eros, che trovo entrambe commoventi. Così mi riescono più perdonabili le ingenuità, e più godibili i lati migliori, a partire dal plurilinguismo degli attori (ovviamente nella versione italiana spianato dal bulldozer del doppiaggio: ma l’Italia non è pronta per la lingua originale). Perché il film, come melodramma, funziona bene, soprattutto nel finale in cui lo spettatore è chiamato a piangere con Elio, e più di Elio. Quel finale in cui il ragazzo viene puntualmente lasciato solo dai genitori, in particolare da quel Robin Williams in incognito che gli ha già detto chiaro e tondo che deve rassegnarsi, per cui quando Oliver annuncia il suo matrimonio non batte ciglio e non ha più pacche sulle spalle da dispensare. Elio rimane solo con noi. E nel melodramma è anche previsto che il racconto non sia sempre lucido: nel film, rispetto al romanzo, si vanno a perdere alcuni elementi connettivi che rendono tutto più chiaro e lineare, ma questo va benissimo, crea un alone di sogno a occhi aperti che si accorda bene con il senso della vicenda e con le tonalità nostalgiche delle scelte musicali. C'è quindi tutta la sofferenza programmata dell'abbandono, dello strappo, del passaggio dolente, propria di ogni Bildungsroman che si rispetti, salvo che in questo caso assume tonalità potenzialmente rassicuranti rispetto all'omosessualità messa in gioco perché manca di effettiva necessità. Funziona cioè bene il crescere della malinconia in proporzione all'approfondirsi dell'idillio con data di scadenza fissata sin dall'inizio. Tuttavia, dati del racconto alla mano, a Oliver ed Elio (complice papà, se l'avesse voluto) non mancavano le possibilità di portare avanti la loro storia: godono entrambi di buona salute, soldi non ne mancano (nel romanzo Elio poi va effettivamente a studiare in America), i genitori di Elio si dicono solidali, non ci sono pressioni sociali particolarmente consistenti. E se l'abbandono non era necessario (possibilità che non viene mai nemmeno ventilata), allora sembra messo lì apposta per dimostrare una tesi decisa a priori, cioè che Elio e Oliver non sono gay ma solo persone aperte a tutto cui capita una temporanea storia tra di loro, dopo la quale possono anche svoltare.

Sotto sotto, l'unica ragione per cui questo amore deve finire è la pusillanimità di Oliver, che torna ai suoi segreti progetti matrimoniali, per sua stessa confessione non troppo convinti ma scelti forse per compiacere un padre poco comprensivo. Anche questa scelta, almeno presentata in questo modo, da parte del personaggio sa però ben poco di fluidità e molto di opportunismo, né più né meno che nel caso del Clive di Maurice, salvo che lì si era nell'Inghilterra edoardiana, dove agivano pressioni sociali (con tanto di minacce di carcere) ben diverse. Per chiudere, Chiamami col tuo nome, per come la vedo io, è una storia gay fatta e finita. I timori, le titubanze, gli imbarazzi, la segretezza, la rimozione, l’ossessione dell’essere scoperti, il non potersi baciare o tenere per mano per strada, non sono una banale questione «di sentimenti e di formazione» a caso, astratta dallo specifico contesto sociale e culturale, che non ha nulla a che fare con il fatto che Elio preferisca Oliver a Marzia o a qualsiasi altra ragazza o a una capra (e spero con questo di non aver dato un’idea per un ulteriore sequel). Altrimenti perché, caro Guadagnino, non hai mandato Elio ad annunciare entusiasta al padre di aver scopato con Oliver esattamente come fa il mattino dopo aver fatto qualcosa con Marzia, ricevendo incoraggiamento a completare la parte mancante? Se è tutto indifferente, se è solo una questione di sentimenti, se Oliver è davvero sostituibile con Marzia, se non conta l’omosessualità perché siamo solo tutti solo esseri umani aperti a tutto, allora abbiamo visto due film diversi (e siamo cresciuti in due mondi diversi, certo in due Italie diverse). Forse il giorno in cui realizzerai che sentimenti, formazione, idillio, e sì, caro Guadagnino, omosessualità, e persino – horrible dictu – gli organi non si escludono affatto a vicenda, e per dare loro un afflato universale, che trascenda etichette e limitazioni di sorta, non occorre rinnegare proprio niente, ecco forse quel giorno farai un grande film. Oggi, davanti a Chiamami col tuo nome, io apprezzo un film di Chalamet (come una volta si diceva un film della Garbo o di Dean) e saluto il ritorno di un brillante novantenne cui sono affezionato sin da quando aveva fatto correre per me, piccolo ma già pronto, Rupert Graves nudo intorno a un laghetto o su per una scala nella camera di Maurice.

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