recensione di Mauro Giori
A Very English Scandal
La storia la si potrebbe riassumere (e un po’ tradurre) così: Norman voleva solo il suo codice fiscale, ma il suo coniglietto non glielo fece mai avere e fu così che perse un cane. Sul quale cane – che per la cronaca si chiamava Rinka – si fece spreco di ironia all’epoca del processo che, nel 1979, travolse Jeremy Thorpe (il “bunny” di cui sopra). I Rex Barker & The Ricochets registrarono ad esempio la canzone Jeremy is innocent! in cui per tre minuti il nome del politico viene ripetuto ossessivamente con seguito di spari e latrati di cani. Auberon Waugh si presentò invece alle elezioni contro Thorpe con lo slogan «A better deal for your dog». Con il medesimo umorismo britannico, oggi Stephen Frears dichiara: «It was an absolutely idiotic story, unless you’re the dog».
E di Frears, settantacinque anni suonati, A Very English Scandal è uno dei più convincenti lavori dai tempi di My Beautiful Laundrette, Prick Up – L’importanza di essere Joe e Sammy e Rosie vanno a letto. Cioè dagli esordi nel cinema degli anni Ottanta, con film su soggetti scomodi quali emarginati per razza e orientamento sessuale. Poi Frears ha fatto di tutto, fino a tornare a un cinema non solo politicizzato ma sulla politica stessa, come nel caso di The Queen (che Helen Mirren e il ritratto caustico della casa reale non salvano dalla noia) o della gradevole parabola anti-Brexit Vittoria e Abdul.
In A Very English Scandal ricostruisce per la BBC un altro pezzo di storia politica e sociale inglese. Si tratta di uno scandalo le cui radici risalgono al 1961, anno in cui Thorpe, facoltoso politico educato a Oxford che aveva passato da poco la trentina, conobbe uno stalliere di dieci anni più giovane, Norman Scott. Thorpe non era certo nuovo a incontri con uomini, ma non aveva mai intrecciato relazioni durature, né lo avrebbe mai più fatto in seguito. Da qui la serie prende avvio, con una scena che Frears si diverte a immaginare secondo stereotipi soft-porno, facendo di Ben Whishaw un pin-up che si esibisce con tutta calma mentre si lava nella stalla, ripreso frontalmente con piani ravvicinati sullo sguardo del suo seduttore, che in realtà lo sta guardando da tutt’altra prospettiva. È un inizio ironico che denuncia da subito l’estrema banalità di una vicenda che avrebbe potuto essere come tante altre, e invece prese pieghe imprevedibili.
Trattandosi di anni in cui l’omosessualità era fuori legge in Gran Bretagna, sarebbe infatti inevitabile immaginare – anche per assonanza con il recente documentario della stessa BBC A Very British Sex Scandal – una vicenda simile a quella che nel 1954 portò all’arresto di Lord Montagu. In realtà gli eventi furono molto più tortuosi e di tutt’altro genere, tanto che lo scandalo scoppiò solo dopo la depenalizzazione dell’omosessualità, fino al chiacchierato processo celebrato nel 1979. La nazione avrebbe così appreso, volente o nolente, tutti i dettagli della relazione tra Thorpe e Scott (e il fatto che i due, nell’intimità, si chiamassero “bunnies” non era certo il più imbarazzante).
Non fu quindi (solo) l’omosessualità in sé a mettere fine alla carriera di Thorpe, membro del parlamento per vent’anni e leader del partito liberale britannico per dieci. Partito che per la verità contava all’epoca davvero poco sulla scena politica, sicché fuori dai confini patri il nome di Thorpe non dirà molto, ma al momento della sua caduta stava dando con grande successo la scalata al potere. Ad ogni modo, dietro alla sua relazione segreta si disegna un quadro di corruzione, pressioni politiche, matrimoni di copertura e molto altro ancora, sufficiente a garantire alle tre puntate della miniserie un’abbondante quantità di sorprese e a Frears l’occasione di muoversi con disinvoltura tra registri diversi, alternando nei momenti più impensati accenti shakesperiani e farsa, con spreco di cliffhanger di classica efficacia.
Ugualmente Grant disegna il suo Thorpe con umori molto diversificati, laddove slanci affettivi e gigionesca affabilità sembrano pensati solo per dare maggiore risalto a improvvisi accenti tragici, d’altronde risolti dal politico in risultati di buffonesco dilettantismo. Whishaw ritrae invece un Norman perennemente sull’orlo di una crisi di nervi, fragile e spaesato nella swinging London di cui raccoglie qualche riverbero, ma capace nondimeno di travolgere il suo “coniglietto”. Come chiunque altro a parte il giudice del processo (che non si peritò di mostrarsi oltremodo parziale e che fu per questo assai dileggiato, ad esempio dal popolare comico Peter Crook), Frears è assolutamente convinto delle responsabilità di Thorpe e ne rilegge la storia come quella di un moderno scontro tra Davide e Golia. Un Davide un po’ squinternato e sprovveduto, spiantato e spesso impasticcato, e un Golia abile e spietato, ma in ultima analisi patetico.
Se poi volete sapere tutto ma proprio tutto delle cronache dello scandalo potete vedere The Jeremy Thorpe Scandal, un documentario appena sfornato dalla BBC che ripropone in buona parte quello preparato nel 1979, nella convinzione che Thorpe sarebbe stato condannato e mai trasmesso visto l’esito imprevisto del processo.