Veggendo a' colli oscura notte intorno

24 febbraio 2013

Dopo molti anni sono tornato a leggere un libro di Klaus Mann, un autore per il quale l'interesse, notevole in Italia due o tre lustri or sono, pare ormai sopito: ingiustamente, in realtà; se non raggiunge le vette toccate nei romanzi maggiori dal padre, lo supera tranquillamente in molto altri casi, dato che neppure il grande Thomas Mann scriveva sempre capolavori.

Il vulcano costituì forse il prodotto più ambizioso dell'attività narrativa di Klaus, per estensione, per vastità di concezione, per varietà e vitalità dell'affresco creato: scritto alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, il romanzo illustra la sorte d'una folla di profughi dalla Germania nazista, che si accresce di anno in anno mentre nel mondo che li circonda gli spazî vitali di libertà sembrano ridursi continuamente di fronte a quella che a tutti gli effetti appare una marcia vittoriosa dei fascismi. Eppure nessuno di costoro si arrende: anche se provengono da ambienti culturali e sociali quanto mai svariati, gli esuli cercano di tenersi a galla in ogni modo e di combattere per la propria esistenza e perché quella che Mann chiama nei suoi diarî "la peste bruna" non seguiti a dilagare invadendo man mano il mondo civile. La posizione dello scrittore, come quella della sua eroina Marion, la pugnace cabarettista nemica di Hitler (in cui è facile vedere raffigurata, per certi aspetti, la sorella Erika), è tetragona e intransigente: non è possibile venire a patti col nazismo, perché il nazismo è la barbarie assoluta; e, a conti fatti, non si può dire che egli avesse torto: di qualsiasi accomodamento diplomatico venisse a beneficiare, in effetti, Adolf Hitler approfittava con caparbio cinismo per aumentare le sue pretese, per allargare la sua influenza e per opprimere maggiormente il popolo tedesco; e, più in generale, contro i regimi di assoluta inciviltà e barbarie l'unica risposta possibile è l'opposizione assoluta, dato che ciascun venir a patti con essi li può solo rafforzare. Purtroppo quest'intransigenza non sa trasformarsi ad ogni pagina in letteratura, e a tratti resta solo grido e proclama: il che, se aveva senso nel 1939, oggi suona assai meno efficace ed opportuno; ciò rende un po' discontinuo il romanzo, che peraltro non risente molto, nel complesso, di queste occasionali cadute retoriche. Anche alcuni espedienti tra il surrealismo e l'espressionismo, come gli angeli che accompagnano l'esteta visionario Kikjou, spiazzano parecchio il lettore dato che s'inseriscono in una cornice fortemente realistica. D'altra parte, il tipico procedere incalzante della prosa di Klaus Mann sa donare un'agilità particolare al romanzo.

Nei personaggi emergono qua e là tratti di persone realmente conosciute dall'autore: in Martin Korella, per esempio, l'unico personaggio chiaramente gay, egli mette certo qualcosa di sè stesso, a cominciare dalla passione per gli oppiacei (anche se Martin, al contrario di Klaus, muore da eroinomane); in Marcel Poiret è rappresentato chiaramente René Crevel, anche se poi Mann lo fa morire da combattente nella Guerra Civile spagnola dopo che ha sposato Marion per darle la cittadinanza francese, come, d'altro canto, nella realtà fece Auden con Erika Mann; e verso la fine appare un personaggio che potrebbe alludere benissimo a Gershom Scholem. Ma se le allusioni, sicuramente molto più copiose, a tanta distanza di tempo sono destinate fatalmente a sfuggire ad un comune lettore qual è il sottoscritto, il loro offuscamento nulla toglie al valore letterario dell'opera, perché Klaus Mann non crea un'esangue allegoria, bensì un vastissimo paesaggio popolato di uomini e donne vivi, con le loro storie, i loro caratteri, le loro passioni, la loro volontà forte e reale di non lasciarsi sommergere da un tenebra che per un attimo sembrò vincitrice e minacciò di far suo il mondo.

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