recensione diMauro Giori
L'allievo
Dopo il promettente I soliti sospetti, il regista (gay) Bryan Singer ha pensato di allungare la già impressionante lista degli adattamenti cinematografici delle novelle di Stephen King con L'allievo. Il racconto ambisce a costruire un serrato confronto tra i due protagonisti il cui rapporto si dovrebbe giocare tutto sulla tensione psicologica e sull'affinità elettiva tra il sadismo "storico" del nazista e quello ingenuo e ancora represso del ragazzino.
Ma il giovane Brian Renfro non regge l'enormità della sua parte e si lascia divorare impotente da Ian McKellen. Lo squilibrio nuoce al film, che prende presto a zoppicare e cerca di rimediare interesse scopiazzando un qualsiasi manuale per aspiranti sceneggiatori cinematografici. Tutto diventa così prevedibile dalla prima all'ultima sequenza e i personaggi abdicano alle loro aspirazioni per accontentarsi di essere puri tipi, già visti infinite volte.
Inoltre, pur smussando le provocazioni del testo di partenza, Singer pasticcia alquanto nel tentativo di suggerire nel rapporto di mutuo sadismo dei protagonisti anche un'attrazione omosessuale (rinforzata da un personaggio secondario dalla discutibile utilità) che rischia di affossare ulteriormente il film legandolo a tutta una lunga tradizione di equivalenze tra nazismo e "perversioni sessuali" varie. Singer non sembra avere la necessaria maturità intellettuale per tenere testa a questo genere di scempiaggini e si lascia tentare dalle vie più facili e banali (ma, nel contesto del film, discutibili), come ad esempio sfruttare il corpo di Renfro in funzione di pin-up.
Nel complesso un fallimento, che non intriga sul piano strettamente narrativo, annoia su quello stilistico, delude alquanto rispetto a I soliti sospetti e lascia perplessi (ed è un generoso eufemismo) sul piano intellettuale.
Una lettura approfondita dei sottintesi omosessuali del film e del suo perenne oscillare tra attrazione omosessuale e omofobia è online sul sito della storica rivista Jump Cut.