recensione diMauro Giori
L'olocausto gay per la televisione
Anche oggi che la memoria è degenerata in un’industria, è quanto mai raro vedere opere che di quell’industria osino intaccare un lustro basato su un’assurda diversità di pesi e di misure, distribuiti in base ai numeri anziché ai valori di un’umanità bisognosa di riscatto. Sappiamo bene tutti che degli olocausti “collaterali” quello gay è stato il più denigrato, perché l’umana idiozia che ha portato gli omosessuali nei campi di concentramento non ha avuto termine con la Liberazione, ma è continuata alimentando lunghe omertà, spesso anche tramite quelle stesse leggi che avevano giustificato l’internamento. Nel caso della Francia, la legge in questione fu abrogata solo nel 1981.
Un amour à taire, film prodotto per la televisione, è dunque un’iniziativa da salutare con apprezzamento, non solo per le opportune intenzioni didattiche (non nuove al regista e rese evidenti dal finale contemporaneo lievemente polemico), ma anche perché si tratta di uno dei pochi testi che da Bent a questa parte abbiano osato toccare l’argomento, arrischiandosi oltretutto a mettere in parallelo esplicitamente le sorti degli ebrei (tramite il personaggio di Sara) e quella degli omosessuali (rappresentati dalla coppia Jean/Philippe).
Peccato per le debolezze sul piano della recitazione (che ostacolano la resa dell’autenticità dei personaggi, specialmente di quello di Sara) e sul piano dell’intreccio, che nella prima parte procede per strappi sprovvisti della necessaria motivazione (risulta particolarmente scontato Jacques, il fratello Caino). Talvolta è come se i personaggi facessero quello che fanno non perché abbia senso o sia psicologicamente plausibile, ma solo perché è il modo più comodo per far procedere la storia precipitando la situazione. I momenti più drammatici finiscono così con l’essere attutiti da una patina di dubbia oleografia, come nel caso dell’interrogatorio della Gestapo e delle brevi sequenze nel campo di concentramento, che andavano altrimenti preparate (è evidente che il regista dà per scontato che lo spettatore sappia giù tutto sui lager e preferisce concentrarsi su quello che accade al di fuori di essi).
In compenso, il film prende la piega giusta nella seconda metà, avendo il coraggio di puntare al peggio e di perseguirlo senza concedere compromessi e senza d’altronde eccedere in patetismo, deludendo opportunamente le attese più melodrammatiche che lo spettatore poteva paventare (come ad esempio un confronto finale tra i due fratelli).